Una folla radunata intorno alle colonne eleganti di una città antica. Un grande uomo che aspetta di morire. La bellezza dell’architettura a fare da sfondo, sottolineando per paradosso lo scempio, prima e dopo che si consumi.
Quanti anni bisogna aver vissuto per riuscire a rappresentare la tragedia del male? Quanti, per rappresentare Dio?
Ad Andrea Mantegna non ne sono serviti molti. Era giovanissimo quando ha dipinto gli affreschi che rappresentano il martirio e il trasporto di San Cristoforo per la Cappella Ovetari, nella Chiesa degli Eremitani di Padova. Aveva fatto da poco il suo ingresso come apprendista nella bottega dello Squarcione quando gli fu commissionato il lavoro, eppure i volti delle persone raccolte per uccidere il santo rivelano già la consapevolezza di un artista maturo.
Gli sguardi che si concentrano con troppa puntualità sul corpo del gigante convertito al cristianesimo, trascinato a terra per un piede. I toraci e le braccia della gente, che spingono per non perdersi nulla. Il corpo enorme, sopraffatto, di chi già una volta aveva portato ‘il peso del mondo sulle sue spalle’.
E Dio che si rivela sotto forma di freccia, deviata dal suo percorso naturale per conficcarsi con precisione soprannaturale nell’occhio del tiranno che aveva ordinato l’esecuzione. A chi sarebbe venuto in mente di rappresentare Dio come una freccia, candida, che taglia il nero del palazzo regale? Potrebbe essere un quadro anche solo questo piccolo movimento colto nella finestra più alta, potentissimo nel suo orrore, con il suo gioco spettrale di vuoti che si rispecchiano – vuoti delle bocche che si spalancano, delle cavità di occhi senza sguardo anche quando non sono feriti, delle ombre che avvolgono fronti e nuche.
Più grande è l’orrore, più dolce è conoscere la fine della leggenda, secondo cui è il sangue del santo decapitato a guarire il tiranno.
Di Andrea Mantegna, come per la maggior parte dei pittori più antichi, si conoscono pochi dettagli biografici. Ma se è vero che l’artista, attraverso la sua arte, dipinge sempre anche se stesso, è probabile che dentro il genio veneto, cresciuto a Padova e legato molto a Venezia, ci sia stata una conversazione costante con il dolore. La mano è precisa: delinea prospettive esatte e rivoluzionarie, corpi perfetti come statue, luci classiche, colori che, col passare degli anni, si fanno sempre più identificativi. Ma poi c’è qualcosa che non c’entra nulla con la lezione dei maestri, ed è un tocco che si ritrova nei volti, nei luoghi dove si conficcano le armi, nelle ombre che si insinuano e coprono la pelle: il tocco della pietà.
Sembra che la mano di Mantegna, in ogni sua opera, si porti dietro una scabra consapevolezza del male. Perfino gli occhi degli angeli: non sono luminosi come quelli di Botticelli o sensuali come quelli di Caravaggio, ma polverosi, inquinati dai presentimenti. Quasi avesse previsto che la sua stessa arte, un giorno, sarebbe stata distrutta dalla cecità dell’uomo, e che gli aerei americani nel 1944 avrebbero polverizzato le aureole presenti nella Cappella Ovetari. Mantegna disegnò i suoi angeli con le ali già pronte a farsi ferire.
Silvia Valerio