Se avete una settimana un po’ sfigata vi capiterà di sicuro di svolgere mansioni di zia presso una Scuola Centralissima della città e nel pieno della corrente di Scipione l’Africano.
Oggi il sole non si può guardare neanche nel riflesso delle foglie, le ascelle lacrimano, i movimenti rallentano, la pressione si abbassa, di contro i tacchi delle mamme si alzano, svettano verso l’alto, diversi centimetri sopra il livello del mare. Il solo vederle ondeggiare pericolanti tra i sampietrini, con quella loro andatura da animali dell’Africa centrale, fa venire una certa nausea. Non si capisce perché molti debbano fare tanta fatica e andarsene oltre il Mediterraneo quando qui c’è tutto quello di cui può avere bisogno uno col mal d’Africa.
La scuola si trova all’interno di una vecchia corte del 1300. In prossimità del cancello, la folla si fa importante. Ha un disegno tipico, come quello degli stormi di uccelli. E’ a gruppetti, tendenzialmente di cinque o più persone contraddistinte da comunione d’interessi, per calare a un minimo di due tre, dove i due tre hanno un vago sentore di carboneria. Gli elementi singoli, che sono o evidentemente babysitter/fratelli maggiori o reietti dal consesso sociale (genitori orientali o genitori che all’inizio dell’anno avevano parteggiato per l’orario breve) paiono a seconda dei casi bimbi sperduti o incattiviti rivoluzionari. Sarebbe interessante, penso, se per una volta tutti i singoli si mettessero insieme.
Un tipo mi passa vicino, con un passo saltellato anche se avrà sui cinquant’anni. Capelli da scienziato pazzo, occhialetti tondeggianti e sorriso beota. Lo avevo visto già per strada e avevo avuto la sensazione che non avesse tutte le rotelle a posto. Invece, a quanto pare, come dimostra la borsa con la griffe dell’ateneo, lavora all’università. Pensa le apparenze.
Poi riconosco un gruppetto di mamme che ho presenti di vista.
Lì si respira un sacco di impegno. Capelli immobili, la palette del gruppo non si scosta dal bianco e dal nero, con punte di beige e grigio. Borse e scarpe coordinate, gioiellame, un sacco di diete, smalto e palestra. Eppure, spiace notare che tutto quello sforzo non abbia portato poi grandi frutti. Gli unici elementi davvero sorridenti, in tutta la corte, sono il tipo che lavora all’università, l’anoressica rossa di capelli che ha due figli ed evidentemente ride perché ha vinto il primato tra le diete, la nonna rifatta e la mamma slava rimasta vedova da poco, florida e curatissima come una zarina.
Non so se è Scipione, ma non mi sento tanto bene.
Nel gruppetto alla mia destra, le cinque mamme saranno tutte sulla quarantina abbondante. Lo sguardo mi corre senza volerlo nell’incavo delle scollature e sulle caviglie sotto il pantaloncino bianco arrotolato. Quella che da lontano sembrava la più graziosa da vicino ha la pelle talmente incartapecorita che, visto lo scenario africano, mi pare impossibile che entro poco non faccia la muta. Mi sposto più all’ombra. Anche se c’è un gruppo di api che ronzano, non importa.
Tra le mamme ne riconosco alcune. Ci sono: quest’inverno le avevo sentite che inveivano contro una delle supplenti e, a quanto ho saputo poi, sono riuscite nell’impresa di cacciarne ben tre in un quadrimestre solo. Le guardo speranzosa. Dopo un’intera stagione passata a raggrinzirsi di rughe d’espressione e a organizzare roghi di supplenti, forse adesso che l’anno scolastico è finito finalmente potranno stare in pace e si dedicheranno agli ozi romani. Finalmente l’estate libererà anche loro. Andranno in giro per locali idioti ma almeno non faranno male a nessuno. Dalle espressioni del viso è evidente invece che no. Nessuna liberazione. Nessuna tranquillità. Nessuna gioia di vivere. Niente di niente. Mi viene in mente il giardino del gigante egoista dove, anche nella bella stagione, nevicava e tirava vento.
“…a me sinceramente non va come hanno trattato Giulia nel primo quadrimestre.”
“M-mh.”
“Ma sai: lì si tengono bassi per poi alzare i voti nel secondo.”
“Sì, d’accordo. Ma loro hanno bisogno anche di qualche soddisfazione. Aveva la media del nove virgola sei e le ha messo nove. Solo che con l’ultimo voto che ha preso nel compito… Non so…”
“Dai, lei che è così brava… Uscirà sicuramente bene.”
“Eh, ma la Ludo non ragiona così.”
“Però almeno la Ludo è brava.”
“Hanno fatto un gran lavoro quest’anno.”
“Poi l’anno prossimo sono in quinta e dopo hanno le medie ed è meglio che arrivino preparati.”
“Guarda che siamo anche fortunate. Mia sorella mi ha detto che i suoi, dopo cinque anni con la Ludo, hanno vissuto di rendita.”
“Dove lo mandi, poi, il tuo?”
“Pensiamo la XXX.”
Subito, il lampeggiare di uno sguardo tra lo stupito, l’ammirato e l’invidioso delle altre, perché in questa città ci sono quattro scuole medie rinomate e quella è la Più Rinomata di Tutte.
“Tu?”
“Eh, l’anno prossimo è probabile che Jacopo andrà in Germania. Gli hanno proposto di entrare in questa accademia di musica… Sai che lui è un po’ di anni che fa violino e gli piace tanto, si è sempre impegnato…”
“Germania? Stai scherzando?”
“No no: proprio Germania. Parlano tedesco, ma ci sono ragazzini un po’ da tutto il mondo… Così fa un’esperienza che gli può servire.”
Sul gruppetto cala un silenzio – non so se pieno di gerarchia, ma di sicuro di astio e invidia.
La prima a riuscire a scongelarsi e a sforzarsi di fare un sorriso è la mamma incartapecorita.
“Una scelta bella impegnativa” soffia.
L’altra, con alzata di sopracciglia come se non dipendesse da lei e tentennamento di capo: “Eh sì. Sarà un sacrificio un po’ per tutti, vista la distanza… Ma lo vedo così convinto che non me la sento di dirgli no.”
Poi, provocate, le altre cominciano a parlare dei corsi estivi, una lunga serie in cui qualunque cosa viene insegnata in inglese: dalla biologia all’arrampicata, fino alla pesca subacquea (!), e non so se è una mia impressione ma quella del corso di arrampicata ha invidia di quella che ha scelto la pesca subacquea. Dopo ne salta fuori pure uno in Inghilterra dove però parlano in italiano.
Vedo un nonno che avevo incontrato una volta in tabaccheria, a grattare una lunga serie di biglietti della lotteria. Di nuovo il professore universitario. Un capellone, chissà se papà o cosa. Punto il capellone.
In quel momento, suona la campanella. Improvvisamente la folla che prima era abbondante ma ancora abbastanza sparpagliata sulla regione esterna al cancello ora si rapprende e non dico che non si vede più la luce del sole – quella sì, batte sempre distribuendosi democraticamente – ma di certo non si vede un tubo del portone della scuola e dei ragazzini che stanno cominciando a defluire da laggiù, accompagnati dalle maestre. Come si può immaginare, a nulla vale lo sforzo di mettersi in punta di piedi. Le mamme e le nonne si assembrano ancora di più. I maschi, un po’ perché sono pochi, un po’ per il ritegno della specie, sono più timidi. Una visione di africana solennità, certo un po’ claustrofobica, ma pur sempre grandiosa.
Ci vogliono alcuni minuti perché finalmente il groppo si sciolga, i primi genitori defluiscano, anche le seconde e terze file, e io riesca a individuare mio nipote. Mi sbraccio, così finalmente la sua maestra mi vede, lo fa uscire e ci ricongiungiamo.
L’avventura, però, è appena incominciata.
“Permesso” dico a un groppo davanti a me.
Nessuna reazione.
“Permesso” ripeto.
Niente. Si vede che Dio vuole che ascolti ancora qualche discorso. Non ho voglia di fare l’isterica anch’io, per cui ce la prendiamo comoda e scambiamo le prime chiacchiere lì sul posto.
“Gemma!” sento. “Gemma. Ascoltami. Gemma, ho bisogno di tutta la tua collaborazione.”
Per distrarmi, mi perdo a guardare un bombo che si dondola appeso al piccolo calice di un fiore.
“Vai via di lì, Riccardo, che ci sono le api!”
Una mamma di quelle di prima ce l’ha con il figlio, che si è fiondato sopra la bicicletta e sta pattinando per il cortile a tre metri dagli ultimi rami della pianta.
“RICCARDO! MI HAI SENTITOO?”
Riccardo continua a gioire della sua bici.
“RICCARDO! PUOI RISPONDERMI QUANDO TI PARLO, PER CORTESIA?!”
Riccardo se ne sta ancora pochi secondi a pattinare con i piedi e poi, per il bene di tutti, si sposta. Va verso il centro del cortile.
“Di qua, Riccardo, DI QUA, che ci sono le macchine!”
Un suv suona il clacson.
“RICCARDO!”
Il suv suona ancora. Rulli di tamburo per Rancas.
Be’, penso, perché si agita tanto? E’ così alto che in fondo Riccardo ci potrebbe passare sotto.
Il suv sgomma con l’inquilino che dal finestrino smadonna, la madre si scambia uno sguardo di disapprovazione con le altre.
“E poi dai un po’ la bicicletta anche a Fiore, che l’hai tenuta sempre tu…”
Riccardo protesta.
“Ma è pochissimo che ce l’ho!”
L’altro, che non si capisce come si chiama sul serio ma è soprannominato Fiore, ha un’aria visibilmente antipatica e a occhio e croce non dev’essere più piccolo del primo, batte i piedi e mette su il broncio.
“RICCARDO! Basta! Non essere maleducato!”
Riccardo non dice niente, riempie le guance di aria, ritorna scuro in viso così com’era prima di uscire da scuola e molla la bici all’altro bambino, che ci zompa sopra facendogli l’ultima boccaccia della serie. Riccardo, adesso a piedi, rasenta il muro, e allora finalmente la madre è in pace, non lo guarda più e si dedica di nuovo alle altre due che ha ai lati.
“Ci facciamo un’ape, dopo?” le sento dire quando riesco a superarle, stupendomi che proprio loro nutrano quest’improvvisa simpatia per gli imenotteri.
Ora che la macchina ha lasciato il campo libero, il deflusso è facilitato. Vedo una bimba in leggins fucsia fascianti, vestitino lilla e codini che sta canticchiando, fa un sacco di schiocchi con la lingua e sculetta in maniera impressionante. È talmente magnetica la somiglianza dei movimenti con quelli che si vedono nei video musicali che ci metto un po’ prima di riavermi e notare un compagno di classe di mio nipote che lo saluta con la cartella sulle spalle e una bambolina a forma di fata sfarfallante tra le mani.
Una mamma dice e ripete a sua figlia che ha bisogno di tutta la sua collaborazione.
“Vuoi andare un po’ a giocare alla play con Vittorio? Eh, Vitto? Tu cosa dici?”
Nonostante la propositività della nonna, i due ragazzini che camminano appaiati davanti a noi non rispondono perché troppo impegnati.
“Guarda!” fa uno. “Questo è l’ultimo aggiornamento ios. È una figata.”
“Cos’è?”
“Iosottopuntoquattro.”
“Figata…”
“La release del software è stata appena rilasciata in fase beta per gli sviluppatori.”
“…”
“E a fine giugno ufficializzeranno la nuova applicazione di streaming in collaborazione con Beats.”
Non fosse per il caldo, chiederei a qualcuno un buon dizionario, comincio a sentirmi un po’ spaesata.
“…E l’altro giorno sono andata in farmacia e ho detto: ‘Guardi, mi dia qualcosa per farlo dormire sennò lo ammazzo!’”
Dai che ormai forse ce la facciamo. Sono gli ultimi metri e siamo in prossimità dell’arco.
“Alla buon’ora!” strilla un tipetto che avrà sì e no sette anni al padre, uomo alto e distinto, che sfoggia pantaloni lunghi e giacchetta azzurrina anche con questo clima. “Hai fatto la stipula intanto?”
Spingo mio nipote fuori dall’ultimo assembramento, dolcemente ma con una certa decisione, con l’istinto del vigile del fuoco, e finalmente aria, siamo dove c’è ossigeno e si respira, dove si può parlare senza temere il linciaggio di mamme isteriche o di gente che chieda tutta la tua collaborazione. Camminiamo per qualche metro in silenzio, come naufraghi. Boccheggiamo. Imbocchiamo la via più tranquilla, solo tanti balconi e qualche ape, ma di quelle vere. Una è quasi obesa, e mentre si palleggia con appetito tra un calice e l’altro fa un ronzio quasi narcotico. Ci fermiamo a guardarla. Quando mi giro a dare un’occhiata distratta alle mie spalle, vedo che l’unico essere che risale la via è un tizio con camicia aperta sul torace nudo e un papillon a pallini sul collo. A mio nipote parte lo sguardo monello. Ma io gli impongo di non prenderlo per il culo. Di certo è un professore universitario.