Questionario proustiano sulla scuola #16. TERESA DE MONTE. La salute parte dalla scuola – pubblicato su Barbadillo.it

Teresa

Tecnologie, velocità, progresso – eppure, quanto si è allontanata la nostra società dalla salute? Quanto si è fatto artificioso il nostro rapporto con gli aspetti più naturali del vivere: il sonno, l’attività fisica, l’alimentazione, il sesso? Non sarebbe forse più sano fare marcia indietro, a quando i ragazzini di dieci anni non avevano ancora i cellulari che facevano foto in alta definizione ma sapevano cos’avrebbero voluto fare da grandi?
Teresa De Monte appartiene a quella categoria di medici che esercitano la professione ancora per sincero idealismo. È chirurgo, pediatra e specialista in Scienze dell’alimentazione e negli anni ha approfondito gli aspetti più originari della medicina: a Pune, in India, ha studiato le tecniche antichissime dell’Ayurveda e per i suoi pazienti usa di preferenza i rimedi omeopatici. È referente regionale della SIOMI (la società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata), docente alla scuola di Omeopatia di Udine e, dal ’72, infermiera volontaria della Croce Rossa Italiana. Scrive per riviste specialistiche e divulgative, tiene rubriche su siti legati alle tematiche dell’infanzia (qui i suoi articoli per Pianetamamma), e ha pubblicato diversi libri, di cui gli ultimi sono: La musica – linguaggio dei cieli, Il riso nella cultura indiana e europea, Ricettario pediatrico – il cibo dei bambini, Alimenti e Omeopatia. Il suo sito è www.teresademonte.eu. Per quel che può, cerca di proteggere i suoi piccoli pazienti dalle aggressioni e dalla brutalità della vita – e spesso anche della scuola – moderna.

 

 

La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?

Certamente sì: è fondamentale una riforma, ma che parta dalle scuole dell’infanzia, non da quelle superiori. È inutile modificare un percorso al liceo. Bisogna che ci sia un rinnovamento a partire dai primissimi anni e che si cambi anche il modo in cui la scuola oggi viene vista da molti genitori: come un posto sicuro dove parcheggiare i bambini prima di andare a lavorare.
Sono da cambiare i programmi. Nelle condizioni in cui è ora, per quanto si facciano delle minime modifiche, la scuola rimane del tutto incapace di fornire ai ragazzi gli strumenti e le possibilità di esprimersi – e per ‘esprimersi’ intendo mettere in pratica le conoscenze apprese dalle elementari o dalla scuola d’infanzia in poi –, creando per giunta una maggiore confusione. Quanti ragazzi si vedono uscire dalla terza media senza sapere minimamente che cosa vogliono fare, qual è la loro idea? Ne incontro tantissimi. Ti rispondono solo: non lo so. E questo è tremendo.

 

 

Che cosa cambierebbe, che cosa toglierebbe, che cosa introdurrebbe?

Credo sia da ricercare una scuola più consapevole delle differenze tra individuo e individuo e capace di gestire diversi livelli di preparazione, e il programma dovrebbe prevedere degli incentivi per i ragazzi in difficoltà e degli ‘extra’ per chi non ha problemi. Al contrario, purtroppo, la scuola italiana tende a uniformare e a livellare. Ora che c’è stato il boom dei nuovi disturbi – dislessia, disgrafia, discalculìa –, i ragazzini che non stanno al passo con la classe vengono abbandonati, e neppure questo è giusto, perché spesso hanno delle grandi capacità in altri ambiti che non siano quelli delle materie strettamente curriculari.
Poi, i ragazzi e i bambini di oggi, li vedo nel mio lavoro, non sanno cosa vuol dire manualità. Ci vorrebbe molto più lavoro manuale, dal momento che la maturità di una persona si sviluppa con la capacità di poter prendere degli oggetti e farne qualcosa. Se procedo in questo senso, per raggiungere il mio scopo, io muovo la mente, mi abituo a studiare l’oggetto, a creare alternative, a trovare soluzioni. Se invece gioco sempre con degli oggetti che mi danno già delle soluzioni, come i cellulari e tutti gli apparecchi tecnologici (ma anche la macchinina a pile che si muove in automatico e non permette al bambino di guidarla spingendosi con i piedi, ma solo di girare il manubrio), coltivo solo la stupidità. Io credo molto nell’utilità e nell’intelligenza dei giochi di una volta. Perché non si usano più il meccano, il traforo? Dare al bambino un martello con dei chiodini giocattolo, far costruire delle piccole cose a incastro: sarebbe l’ideale. Un altro insegnamento profondamente importante che è stato soppresso, non solo per la femmina, ma anche per il maschio, è l’economia domestica. Sfido chiunque a verificare quante sono le ragazze e i ragazzi che sanno stirarsi un paio di pantaloni o attaccarsi un bottone.

 

 

Come potrebbe una buona scuola favorire l‘inserimento nel mondo del lavoro?

La scuola non può pretendere di offrire solo nozioni ed esercitare la tecnica mnemonica. Dovrebbe, accanto allo studio, dare la possibilità di impegnarsi già da giovanissimi nel mondo del lavoro. Di fare esperienze significative. Capire che cosa vuol dire lavorare, da soli o alle dipendenze di qualcuno, e cioè cominciare a sviluppare la capacità di organizzarsi, di diventare sempre più autonomi. Ciò permette un approccio graduale ed equilibrato alla professione, evitando così quelle forme di stress, di ansia e paura che poi assalgono molte persone al momento dell’avvio del proprio lavoro. Queste esperienze si potrebbero, e si dovrebbero, fare a fine scuola. Nel periodo estivo sono giuste le vacanze, però, non dico dalle medie, ma senz’altro dalle superiori, dedicare un mese, un mese e mezzo a una pratica lavorativa leggera non sarebbe certo un problema. In tutti gli altri paesi d’Europa questa è già un’abitudine.

 

 

È ancora sensato puntare a una pedagogia di tipo etico-astratto, idealistico, invece che funzionale? Non è un prendersi in giro fingendo vivo un universo di valori assoluti che la storia recente ha ucciso? La formula “serve per aprire la mente” non ha il sapore di un’illusione?

Io posso studiare, certo, ma ho bisogno di impegnarmi in un’opera, in un lavoro che sia manuale, produttivo, che mi permetta anche di avere una conoscenza ‘viva’ di quello che sto facendo, che intorno a me non ci siano solo parole. A scuola occorrerebbe insegnare ai ragazzi a sapersi gestire: ciascuno deve poter essere anche il ragioniere di se stesso. Quando in futuro si affiderà a uno specialista, come il commercialista, deve pur sempre sapere che cos’è una cambiale, cos’è un prestito, per evitare così che ci si trovi nelle situazioni che le cronache recenti ci hanno fatto conoscere…
Una scuola dovrebbe dare la possibilità di sviluppare queste competenze fin dalla prima superiore; in una certa forma, potrebbero essere veicolate già dalle medie. Allo stesso modo, è inutile che le famiglie diano la paghetta settimanale ai figli, se non spiegano che significato ha il denaro e quello che un ragazzino può farci. A mio parere, questo vuol dire aprire la mente. Aprire la mente significa avere la capacità di muoversi, di regolarsi e prendere le decisioni giuste in qualsiasi posizione e situazione ci si trovi, sia a casa propria, sia all’estero.

 

 

L’alfabetizzazione di massa è un problema ormai superato. Varrebbe la pena lasciare, fin dalle elementari, più libertà di scelta agli studenti e alle famiglie, sia per quanto riguarda la possibilità di specializzarsi in certi ambiti piuttosto che in altri, sia per quanto riguarda gli orari in cui frequentare la scuola? Mantenere magari un minimo di ore obbligatorie e renderne facoltative e personalizzabili altrettante?

Oggi, le nozioni servono a livellarci: siamo tutti portati come un gregge di tante pecore che devono seguire un unico obiettivo. In questo modo siamo più malleabili per chi ci governa. Lo Stato non lascia assolutamente la libertà di espressione al singolo. Questo si vede anche nei compiti in classe: proprio poco tempo fa è successo che in prima media una ragazzina abbia avuto un’insufficienza in italiano perché in un tema ha espresso un pensiero non concordante con quello dell’insegnante. Cosa ti insegna un episodio del genere? Che la devi pensare come pensa chi sta sopra di te, altrimenti sei nell’errore, non sei adatto al mondo, sei tagliato fuori. E ciò significa tarpare le ali alle persone, limitarle profondamente, radicalmente. Fino al punto che tanti non sentono nemmeno più la necessità di esprimersi.
Per quanto riguarda la scuole a tempo prolungato, si sa bene che sono più un’esigenza dei genitori che lavorano che dei bambini. È inutile poi dire che bisogna incentivare l’attività sportiva: i ragazzi non lo possono fare con i ritmi e gli orari scolastici e con lo stress che si crea nell’ambito familiare. Per permettere una buona crescita e una buona maturità della persona, o si trasformano le scuole italiane in quelli che all’estero si chiamano college – istituti dove il tempo della giornata viene diviso come si conviene tra momenti teorici, pratici, ricreativi, sportivi e privati e i ragazzi tornano a casa solo il sabato e la domenica –, oppure le lezioni dovrebbero durare al massimo fino alle 14, e il pomeriggio dovrebbe essere dedicato allo studio ma soprattutto all’attività pratica, ludico-motoria e al riposo.
Le ore obbligatorie ci sono sempre state, ma devono essere personalizzabili, proprio per tirare fuori il meglio delle qualità di una persona. Altrimenti, rischiamo di peggiorare la situazione attuale, per cui in ogni classe vige la calma piatta, nessuno eccelle, nessuno si distingue per qualche attitudine particolare. E se, come ormai succede raramente, qualcuno ha il coraggio di essere diverso o di primeggiare in qualcosa, ecco che viene bersagliato – è una mosca bianca che alla classe non sta assolutamente bene.

 

 

Non è necessario, sempre, dalle elementari alle superiori, lasciare ai ragazzi del tempo per coltivare altre qualità oltre all’efficienza della mente?

È sempre necessario. Si deve avere il tempo per poter coltivare altri interessi, soprattutto per permettere il perfezionamento dell’espressione individuale – quello che a noi più manca. Una conseguenza che sta davanti agli occhi di tutti è la celebre fuga dei cervelli: l’emigrazione di tanti talenti italiani in altri paesi d’Europa, dove la loro creatività e originalità è apprezzata.

 

 

È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?

Certo. Gli stupidi rimangono stupidi. Possono solo creare problemi in più.

 

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