La giornata si è aperta bionda e dorata; il sole rimbalza sui cruscotti delle auto, le mille finestre degli uffici, i tettucci di lamiera delle industrie. Bionda e dorata e violenta, con il caldo che ti prende già alla gola e ti mette al muro, gli insetti che scopri fermi, enormi, nelle loro uniformi da dinosauri. Eppure io sono felice, molto felice, perché ho appena finito di leggere un libro bellissimo, e mentre lo leggevo mi capitava di bagnarmi le caviglie nel Mediterraneo e di sorseggiare vino greco, guidata da un signore dalle labbra carnose e dagli occhi penetranti.
‘Vita di Epicuro’ è il libro che tutti quelli che hanno fatto studi classici avrebbero voluto leggere da ragazzini. E Goffredo Coppola è il professore che tutti avremmo voluto avere da ragazzini. Non solo per le labbra carnose e gli occhi penetranti, naturalmente. Lo avrei voluto perché nella sua scrittura intuisco molta vita, una vita fatta di severità, politica, lotta, guerra, morte e dolcezza, e tuttavia questa vita passa nella scrittura senza scoppi, urla e drammi, rimane in filigrana, come quella piccola ruga che gli increspa la guancia nelle fotografie, lasciando solo la dolcezza, e così dà un libro davvero “semplice e cordiale”, come lo definisce lui stesso, nella sua ‘Lettera ad un amico’ introduttiva. Quella di Coppola è una scrittura fatta di grazia ed equilibrio, di tante, tantissime immagini che ti portano a correre sotto i dodici ulivi sacri dell’Accademia, con il profumo di smilace addosso; a sederti davanti a Socrate, in carcere, mentre si gratta la gamba finalmente libera dalla catena, e su quella gamba organizza il suo ultimo pensiero; a provare sui polpastrelli la carne dei marmi di Atene, ad aprire un sileno nella bottega di uno statuario. È il tempo della filosofia, della retorica e delle guerre tra filosofi; del Democrito che insegnava a non desiderare, perché “se non desideri molto, le poche cose che hai ti sembreranno molte”, di Socrate, Platone, Aristotele, delle agorà e dei simposi. Epicuro non è di estrazione nobile. Figlio di un maestro, passa i primi anni educato nella sua scuola, e tanti nemici nel corso della sua vita si appelleranno spesso a questo particolare per screditarlo. Poi fa parte della scuola di Teo, dove Nausìfane legge Democrito. Si trasferisce ad Atene, insieme a Menandro, futura stella della commedia, per il servizio nell’efebia attica. Viaggia e studia. A pochi anni dopo risale il periodo della sua malattia: persi tre giovani fratelli, viene colpito da fortissimi dolori agli arti inferiori, non sopporta la luce del sole, è così magro che soffre il contatto con le vesti. Costretto all’immobilità e al buio, pensa. Alla vita, alla morte, alla natura, alla sofferenza. Al rapporto del dolore con l’uomo. Alla serenità luminosa che viene solo dalla conoscenza e da sola può dar senso a tutta una vita. Dal buio del male risorge finalmente sano, con un pensiero lucido e saldo come uno scudo da battaglia. Comincia così l’avventura sua e della sua scuola, attraverso polemiche e addirittura una fuga, simile a quella che era toccata ad Aristotele. Perché quella di Epicuro è una scuola davvero singolare, a suo modo rivoluzionaria: non elitaria, è aperta anche ai poveri e frequentata da donne, e si colloca agli antipodi rispetto a quei cattedratici che insegnavano ai giovani come capovolgere la realtà a loro piacere. Epicuro cerca l’essenziale; lo ha trovato in quella conoscenza disciplinata, sincera, pura, che porta alla serenità di chi non si aspetta nulla di più di ciò che non possa dare la vita stessa. Togliere all’uomo la possibilità di qualunque maschera e qualunque speranza: questo cerca.
“Sarà la saggezza il primo sostegno della felicità. Questa virtù pratica che è preferibile alla stessa filosofia è madre di tutte le altre virtù, le quali, del resto, ci insegnano che non si può essere felici se non si è saggi, se non si è onesti, se non si è giusti, e che giusti, onesti, saggi non si è senza essere anche felici. […] Ecco quello che voi mediterete notte e dì, da soli e con l’amico che più vi assomigli. Queste poche idee fondamentali stabiliranno la pace nella vostra anima, e nessun turbamento vi procureranno i sogni della notte o i pensieri del giorno, ma vivrete come un dio fra gli uomini, se è vero che non si somigli agli uomini, ma agli dèi, quando ci riesca di godere in continua beatitudine il riposo degli dèi…”.
Epicuro, quest’uomo dallo sguardo sereno e ironico, pieno di benevolenza, che ha trascorso la vita insieme agli amici e discepoli, senza rincorrere glorie e denaro, senza odiare i nemici, quest’uomo tanto calunniato che perfino noi uomini e donne di millenni dopo ancora lo immaginiamo come un viveur senza dio, intento ai piaceri e alle bellezze del suo giardino, è stato un uomo che ha vissuto davvero, ma perché non si è mai aspettato qualcosa in più rispetto alla vita. L’ha amata con grazia, con religione, con santità, con pienezza, fino alla morte.
Si può essere d’accordo o meno, con Epicuro. Si può non avere il dono di quella sua quiete tanto sicura. Si può essere dei dannati passionali che amano farsi trafiggere dalle cose, più simili a Teofrasto, forse, che, in fin di vita, aveva da lasciare ai suoi discepoli solo un “dolore profondo e bello”, tanto aveva guardato dentro il cuore degli uomini. “E non ti accorgi, Epicuro” gli diceva, “che gli uomini ti malediranno appunto perché non hai capito che il denaro vale per gli uomini assai più della bontà, assai più dell’onestà, assai più della bellezza, assai più dell’ingegno?”
Epicuro invece morì sereno, così come era sereno l’“amico che più gli assomigli”, Goffredo Coppola, il pomeriggio di quel giorno di aprile che fu fucilato sul lungolago di Dongo. “Il saggio non compone poesie ma vive la poesia”, scrisse Epicuro.
Ormai, quanti libri di oggi sono senza vita? Quanti giorni, quante notti, quante persone sono senza vita? In questa esile biografia ce n’è molta, di vissuta e di sottratta.
Allora smettiamo di fidarci di tutti i retori che ingombrano le nostre agorà, i nostri giornali, le nostre televisioni, dei nostri Gorgia da social network. Dei sofisti che nei licei e nelle università ci insegnano l’arte divertente del perdere qualsiasi certezza, dell’essere qualunque cosa e il suo contrario, di passare senza troppi pensieri da maschio a femmina e da femmina a maschio, di “questi predicatori che incedono in vestimenti ricchi e con la cattedratica pigrizia degli accademici”. Fidiamoci invece di chi senta che “l’educazione dei giovani è un rito religioso e che anche la scienza è religione”. Di chi scrisse questo libro tra una marcia e un colpo di cannone. Di chi non adoperi illusioni. Facciamoci insegnare da questi vecchi professori la religione della vita; impariamo a dire davvero il nostro grande sì a tutte le cose.