Allora: c’è una donnina veneta, con quel modo di fare un po’ così, beneducato e sottomesso – nel suo dialetto si direbbe ‘bronsa coerta’ –, c’è un vecchio padre comunista, una misteriosa influenza, un noioso consiglio regionale evitato con astuzia, un partito potente e un esotico viaggio in India per un matrimonio nella terra dell’ayurveda e di Sandokan. Parrebbe un perfetto canovaccio per Goldoni o Shakespeare, materiale pronto per narratori sagaci e geniali indagatori dell’umano, o un esercizio di scrittura creativa, una storia che si articola tra Vicenza e Jaipur, tra le nutrie e gli elefanti, tra gli spriz e la curcuma, gli spray al peperoncino e i bengala, gli schei e le rupie, la nebbiolina e i monsoni, il silenzio della provincia veneta e le urla gioiose tra i sitar, i corsi di preparazione al matrimonio e il kamasutra. E invece è solo la vicenda Moretti, la riprova che, come al solito, la realtà è sempre molto più figa di qualsiasi immaginazione e che Safran Foer, vivaddio, potrebbe pur trovare linfa nei giornali italiani, invece di farsi seghe psicanalitiche dalla mattina alla sera. Poi abbiamo il coraggio di lamentarci per la politica che non cambia mai e i risultati del referendum che ci portano dalla padella alla brace! Siamo davvero un popolo di dannati incontentabili. Ogni tanto dovremmo affacciarci con sguardo vergine sul mondo, fare un sospiro e accorgerci di quanto sia meraviglioso quello che ci circonda. Ringraziare l’universo. Perdonarci. Ridere.
Io, per esempio, sono talmente presa dalla bellezza di questa vicenda che, vi garantisco, alla Moretti darei lo stesso il gettone di presenza solo per il fatto di averci dato uno dei quadretti più delicati dell’annata 2016 – più innocente degli slanci creativi di Lapo Elkann, più avventuroso dei tour danzanti di Gianluca Vacchi, più saporito del Fini che si dà del coglione da solo.
L’influenza mutante (“prima di partire sono stata male, poi sono guarita, poi sono stata di nuovo male in India, come tutti”); la foto coloratissima, a metà tra ragazza in Erasmus e reminiscenze anni Sessanta, con occhialoni, red bindi e coda di cavallo, che si è pubblicata da sola su Instagram; le compassate difese al rientro in Italia (“trovo surreale tanto interesse per la mia vita privata e per la mia salute. Ma di cosa mi dovrei giustificare?”). L’unica cosa che ha rovinato una storia che narrativamente nasceva perfetta è stato il grigio climax di scuse che poi ha stilato su Facebook: “Chiedo scusa per aver deluso le persone che mi hanno dato fiducia e che ho mancato di rappresentare in questi quattro giorni. Chiedo scusa al Partito Democratico, che nulla c’entra con questa spiacevole vicenda personale, e ai suoi iscritti. Chiedo scusa, infine, ai colleghi del Consiglio Regionale del Veneto, perché è solo con il costante lavoro di tutti che si possono raggiungere gli obiettivi prefissati”, terminato con la precisazione che il gettone di presenza non l’ha ricevuto, non essendo stata presente in aula durante il malaugurato consiglio.
Ma, perdio, Alessandra, il viaggio in India allora non ti ha insegnato niente? Torni qui e subito ritorni vicentina e parli di “spiacevole vicenda personale” e “costante lavoro di tutti”? Eri così carina tra i colori dell’India. Ispiravi libertà, pace interiore, amore universale. Veniva voglia di abbracciarti per venti secondi. Su Facebook dovevi postare una frase di Osho, oppure un primo piano degli occhi di Kabir Bedi dell’epoca d’oro, e che ciascuno si facesse un po’ i cavoli propri. La politica dovrà pur riappropriarsi di una dimensione artistica e vitale, e non essere solo burocrazia.
Sai cosa si meriterebbero? Io me ne tornerei in India, senza dire nulla a nessuno, e mi reinventerei attrice di Bollywood. Così imparano, questi moralisti italiani.