Torna a quei giorni. A quando uscivi di casa con i capelli bagnati e ti mangiavi le strade. A quando fumavi o facevi finta di farlo. A quando aspiravi distesa dalle labbra di qualcuno. A quando aspettavi una telefonata. A quando sbagliavi le parole e non dormivi per l’eccitazione. A quando per essere felice bastava comprare un biglietto del treno. A quando notavi tutti i colori dei suoi occhi. A quando non c’era mai un posto buono dove stare.
Torna lì, a quando la vita era indimenticabile.
E se non te lo ricordi più, chiedi ad Alessandro come si fa.
Ragazzo indimenticabile, al di là del bene e del male, Alessandro Valenti ha scritto il libro più bello dell’anno. Un romanzo grande, anche se lui ha appena diciassette anni, a partire dal titolo: “Ho provato a morire e non ci sono riuscito”(Atlantide Edizioni).
Una storia d’adolescenza tristissima, incandescente e feroce, che è universale e andrebbe letta soprattutto da adulti.
Perché Alessandro, finalmente, ci salva dalla letteratura e dal mondo “con precauzioni”, dalla conta delle ipotesi e delle nevrosi, dai libri, dalle persone, dalla politica che non dicono più niente. Lui dice fin troppo.
Perché è giovane ma non ha filtri e ha i mille anni di tutte le vite che conosce. Quelle dei coetanei. Delle ragazze digitali. Di quelle vere. Quelle di chi abita la Verona bene e chi sta nelle periferie di Roma e della Campania. Quelle di gente del doppio dei suoi anni e con molte meno disillusioni. Quelli delle bande della mala romana. Dei disperati in cerca di una moneta per farsi. Quella dell’alter ego russo che si inventa per amore e per odio.
Alessandro che, sì, prova l’amore, il primo, e lo trasforma in tutte le parole del vocabolario. Alessandro che riconosce troppo presto le bugie – quelle degli altri, della società, le proprie.
Alessandro che terrorizza e si ammala di terrore. Alessandro che scrive tra Nietzsche e Céline, o anzi tra se stesso e se stesso, perché ha già abbastanza anime dentro di sé.
Alessandro che si fa leggere come una canzone.
Alessandro è un “catcher in the rye” che gioca dalle parti delle stazioni, con coltelli, telefonini ricondizionati, in testa un berretto da spacciatore. Racconta della vita, di quella che non si vuole vedere. Di quei giorni “neri come gli occhi del teschio dell’anello che avevo al pollice”; di quando continui “ad andare avanti in retromarcia”, di quando non te ne “frega della verità, neanche se viene a inginocchiarsi ai tuoi piedi”; di quando l’unica persona che ti interessa è “mezza svestita, tutta spettinata e con le guance rosse”. Di quando “cammino stanco morto e pieno di un’elettricità nervosa per la città cercando gente che non fosse il me dei miei familiari, gente che fosse un tu come Emma” e “mi picchiavo perché anche se ti va bene tutto ci vuole un qualcosa in più”.
Alessandro che non inventa niente, perché la fantasia preferisce applicarla alla realtà.
Alessandro che non ha bisogno dell’America per scrivere la sua epopea, tanto ha i canyon delle periferie italiane e i corpi sudati delle adolescenti di Instagram.
Alessandro che va dai voli dell’ironia a una disperazione muta, “da non sentire neanche più il cuore quando mi distendevo a pancia in giù, solo un vuoto cavo”, da uno sguardo gentile, pieno di pietà a una ferocia distruttiva.
Alessandro che ti strappa le lacrime dagli occhi quando leggi di quando marina la scuola e al parco scopre una piccola statua della Madonna: “La guardai a lungo negli occhi. Azzurrissimi. Puri. Cercai di far scatenare una tempesta elettromagnetica di dispiacere. Mi accucciai su una pietra sotto di lei. Magari una scaglia di quel colore mi cadeva addosso. Stetti lì con il cellulare in mano a non piangere, a piangere le mie lacrime secche, le lacrime che non sapevano proprio come uscire dai miei occhi di pietra.”
O di quando è davanti al monitor del computer: “In realtà assistevo allo spettacolo, a suo modo affascinante, del dolore. Aveva proprio mille facce. A volte era un polpastrello angelico di violenza che mi accarezzava dentro le braccia. A volte avrei voluto appallottolarmi e sparire un pezzo dentro l’altro. A volte era come un dimenticarsi via. Come un ‘ops, ho sbagliato’, su cui la tastiera s’inchioda. Ma il sentimento più forte era quello di essere al passato. Difficile da spiegare. Mi guardavo come da fuori di me, come se fossi stato l’ancora di salvataggio piantata nel futuro, quello che ce l’aveva fatta e vedeva quell’altro che soffriva come un cane.”
Alessandro, che ha scritto la storia più onesta che si potesse scrivere, anche se l’amore era solo suo, ma era larger than life e quindi bastava per due.
Alessandro, che prova a morire ma è più vivo di chiunque altro.
E noi che lo leggiamo impariamo a tornare lì, alla vita indimenticabile.
Silvia Valerio
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