Ama il Natale, il Veneto. Per tradizione. Forse perché era il momento di riposo
dal lavoro nei campi, la tregua dal caldo che bruciava durante i raccolti o nelle
piazze, la schiena che finalmente si rialzava dall’impegno della semina, dalla cura
delle piante, dalle uscite in laguna o dalle casse di merci. L’inverno era la casa, la
famiglia, il lavoro a maglia, le fumate di pipa e i racconti attorno al fuoco, le sere
più lunghe sotto le coperte – tanto che, come raccontano diversi vecchi, la
maggior parte dei bambini veniva concepita proprio in questo periodo. Era
anche il sacrificio di tante bestie allevate nei mesi precedenti, pescate nei corsi
d’acqua, barattate o acquistate: a dicembre i prodotti della terra e del mare
circolavano finché ogni famiglia non aveva il necessario per preparare il proprio
pranzo di Natale e offrire ai propri parenti piatti curati a lungo, benaugurali e
prelibati.
Quasi in tutte le provincie era usanza incominciare con una scelta di salumi: un
tagliere, spesso accompagnato da verdure sottaceto, tra cui spiccava la soppressa
all’aseo, la soppressa di maiale tagliata a fette grosse, irrorata con un cucchiaio di
aceto di vino rosso, e servita calda con la polenta. Seguiva una minestra bollente:
il tradizionalissimo brodo di cappone, che richiedeva una scelta accurata della
carne e una precisa cottura (andava fatto borbottare e non bollire) di solito
rinforzato con i tortellini di carne. A sostituirlo, poteva esserci un piatto di risi e
bisi, un risotto acquoso cotto insieme ai piselli, originario della zona vicentina, o i
risi con i fegatini. Il fegato è un cardine della cucina veneziana; per il figà àea
Venessiana veniva cotto a lungo insieme alla cipolla, e così addolcito. Pare che
l’usanza derivi dal tempo dei Romani, quando si ammorbidiva il sapore marcato
del fegato cucinandolo insieme ai fichi secchi. Protagonista del secondo piatto
era il pesce o la carne: il bacalà mantecato e le agrodolci sarde in saòr, oppure il
gran piatto di lesso con salse. Ricetta storica di Venezia, il baccalà mantecato era
preparato con lo stoccafisso, merluzzo artico norvegese, ammollato per circa un
giorno in acqua fredda, meglio se corrente, e poi fatto cuocere nel latte, finché si
ammorbidiva e diventava una crema da insaporire con olio, aglio, sale, pepe,
prezzemolo e gustare insieme alla polenta abbrustolita. Chi preferiva la carne
ripiegava sull’altra prelibatezza: il piatto di bollito. Che fosse di cappone, di
manzo o un misto di carni (come vitello, gallina, cotechino, lingua), era sempre
accompagnato da un florilegio di salse saporite: il pungente cren a base di
rafano; la salsa verde con prezzemolo, acciughe, capperi e mollica di pane, e,
infine, la pearà, leccornia veronese a base di pane raffermo, midollo di bue, brodo
di carne, parmigiano e, soprattutto, il pepe macinato fresco da cui prende il nome
(pearà, ovvero pepata). Al momento del dolce si scontravano le anime e le
predilezioni del Veneto: da una parte i croccantissimi mandorlati, dall’altra la soffice arrendevolezza del pandoro, il pan de oro burroso che aveva sedotto con il suo profumo anche i nobili di Venezia.