Adesso immaginate che la scuola non ci sia più. Che non ci siano più gli orari, le aule grigie e squadrate, le cattedre, le lavagne, gli zaini spaventosamente pesanti. Che non ci siano più i compiti, le verifiche, i voti. Immaginate dei bambini che possano imparare dentro edifici belli, colorati, pieni di natura viva, e soprattutto fuori: nelle città, nel mondo. Che possano coltivare prima di tutto l’entusiasmo e la libertà, provare il piacere dell’avventura e della caccia alla vita, della salute e dell’energia, quello della ribellione e dell’affermazione. Immaginate che imparare non sia più un obbligo, ma un desiderio, un’attività erotica, come lo era nell’antica Grecia, e insegnare non un dovere, ma una passione. Immaginate di imparare con Dioniso e non con Saturno. Paolo Mottana ha immaginato tutto questo, con un entusiasmo generoso verso quell’età speciale che è la prima giovinezza: la sua risposta ai problemi della scuola moderna si chiama controeducazione (www.contreducazione.blogspot.com). Già docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, Mottana insegna filosofia dell’educazione presso l’Università di Milano-Bicocca e studia i rapporti tra filosofia, educazione, arte, immaginario (Eros, Dioniso e altri bambini. Scorribande pedagogiche, Franco Angeli Edizioni; Piccolo manuale di controeducazione, Mimesis Edizioni, La gaia educazione, Mimesis Edizioni). Diffonde il messaggio controeducativo in numerose conferenze e incontri trasversali con il pubblico, facendone un impegno davvero politico. Nella prima pagina del suo ultimo libro si leggono parole dalla baldanza fiumana: “Preferiamo: alla fatica la passione e il piacere, alla negazione l’affermazione, alla preservazione il rischio, alla mente il corpo”. Continua a leggere
Archivio dell'autore: Silvia Valerio
Questionario proustiano sulla scuola #1 – ANNAMARIA TESTA. Insegnare con intelligenza, metodo e creatività (pubblicato su Barbadillo.it)
Lei è la bella ragazza che si vede di spalle nella famosa pubblicità del Luxardo degli anni ’80, quella che parla, anzi scrive, con la erre moscia. E poi è la ragazza della Golia che sfrizzola il velopendulo e galvanizza l’ugola, di “Liscia, gassata o Ferrarelle?”, delle pagine promozionali di Ciocorì, della Fiat, di Bticino, Illy e poi ancora e ancora, passando per molte delle più celebri pubblicità. Annamaria (nomen omen) Testa (nessun legame di parentela, però, con Armando e l’omonima agenzia) è la voce instancabile e appassionata della creatività italiana; copywriter negli anni ruggenti della pubblicità, ha lavorato per le più grandi agenzie di comunicazione e nel 2005 ne ha fondata una: la società Progetti Nuovi.
Sul suo sito NuovoeUtile, dedicato alla diffusione di “teorie e pratiche della creatività”, si occupa di tutto quello che un tempo sarebbe stato definito disciplina umanistica – lettere, psicologia, arte, mondo del lavoro, educazione e, naturalmente, tecniche di scrittura (La trama lucente e Minuti scritti, Rizzoli, andrebbero adottati a scuola come libri di testo, insieme all’antologia) –, cercando di fare dell’intelligenza opera d’arte. Prima donna a essere entrata nella Hall of Fame dell’Art Directors Club Italiano, è consulente, giornalista per le pagine di Internazionale.it e insegna all’Università Bocconi di Milano. Negli anni, è stata ideatrice e promotrice di iniziative di valore come #dilloinitaliano, petizione per salvare la lingua italiana dagli orrori del burocratichese e dell’itanglese, il corso per la prevenzione degli incidenti e il pronto soccorso pediatrico. E, soprattutto, le novantacinque tesi sulla scuola per migliorarla e vivificarla, ripulendola dai tecnicismi sterili e dai moralismi inutili.
Perché “chiedere all’analisi testuale di dar conto della magia di una narrazione è come chiedere a un anatomopatologo di dar conto del sex appeal di Marilyn Monroe”. Continua a leggere
Scuola# – Perché lanciamo un ciclo di interviste con un questionario proustiano
Va quasi sempre così: ci si accorge che qualcosa muore – un sistema, un mondo, uno stile – solo dopo aver aspirato per mesi (o decenni, addirittura) l’odore della putrefazione. Come con quella professoressa morta da due anni nel suo appartamento di Roma e ignorata dai vicini, di cui Francesco Merlo ha voluto, in uno slancio di spericolato lirismo, fare poesia e metafora. Professoressa non a caso. È spaventosa allegoria del suo mestiere.
La scuola di oggi sta morendo e noi ci giriamo dall’altra parte. O, peggio, acceleriamo la sua fine. Abbiamo lasciato passare i decenni senza pensare alle sue incongruenze. Le abbiamo permesso di tirarsi avanti stancamente, per inerzia. Sono passate le guerre e le polemiche del ’68. I delitti politici e quelli di mafia. La droga e l’Aids. Internet e la scoperta dell’orgoglio gay. Il lavoro stabile, la morte naturale. Continua a leggere
Cari bambini
Cari bambini,
tra pochi giorni ricomincerà la scuola. Tra poco bisognerà ricordarsi di prendere tutto l’occorrente per le lezioni, preparare gli zainetti o le cartelle, mettere la sveglia presto la mattina, far colazione all’alba, buttare la faccia sotto l’acqua gelata, uscire mezzi rimbecilliti e in panico e arrivare in quell’edificio che presto l’irenista di turno chiamerà la vostra seconda casa. Continua a leggere
Generi di lusso – pubblicato su Cultrura, rubrica delle Edizioni di Ar
Diciamoci la verità: in fondo siamo dei viziati, degli incontentabili, troppo ben abituati per renderci conto di quante sorprese, stimoli, prospettive inaudite ci offra questo mondo di oggi. Siamo così abituati, come playboy di lungo corso, che nemmeno riusciamo più a eccitarci. Viviamo in un romanzo e non lo sappiamo. Io ho avuto l’illuminazione qualche giorno fa e da allora sono eccitata come una lettrice di Harmony, mi sento in un libro di Bradbury o Lovecraft e mi chiedo come andrà a finire.
Gli ingredienti ci sono tutti: grandi masse di persone, nuove ideologie dal fascino straniero, alieni, mutanti, sollevazioni, gruppi di difensori della normalità, i media che condizionano, una tragedia imminente e il senso che ai buoni non sarà facile spuntarla.
La storia credo la sappiate un po’ tutti. Nei ruggenti anni settanta, dopo i divertimenti del decennio precedente e i viaggi esteri e interni d’ogni genere, tra una capanna indiana e un tatuaggio psichedelico, nel Nord America agitato nascono in seno alle minoranze femministe le teorie dei gender studies, o studi di genere, che, dopo qualche elucubrazione, approdano alla conclusione che un conto è il sesso, che ci viene dato da Madre Natura e dal nostro corredo genetico, un conto il genere, che proviene dai condizionamenti ambientali e dalla realtà che ci circonda. Secondo la stessa teoria, l’educazione del futuro ha il compito di lasciare al bimbo la completa libertà di scegliere, a prescindere dal pisellino o dalla farfallina, quello che più gli piace, e perciò nessuno gli dovrà mai dire che cos’è, finché il fantolino non lo scoprirà da solo.
Bene. Gli anni settanta sono stati un decennio sicuramente divertente; ci sono state le lotte di piazza, è uscito ‘The dark side of the moon’ dei Pink Floyd, suonano i Led Zeppelin, al cinema proiettano Guerre Stellari, si inviano sonde nello spazio, si diffondono i gruppi di yoga, si scopa come ricci, si prova un po’ tutto il provabile e talvolta ci si rimane, si preparano i ruggenti anni ottanta con il loro corredino di siringhe e fantasia. Anch’io mi gingillo spesso leggendo i resoconti di quegli anni come vecchi libri d’avventura e passo in rassegna le teorie psicologiche e politiche che trovo stimolanti e ispiratrici, grandi prove della capacità immaginativa dell’essere umano. Però dopo torno alla realtà, non mi è mai venuto in mente di provare quel famoso fungo allunga-vita o di rifugiarmi nel cyberspazio.
Invece, la cosa strana è che la teorie dei gender ha preso piede e, di più, sta marciando spedita.
Nella mitteleuropea Trieste, dove tutto arriva prima rispetto al resto del mondo, negli asili (che adesso si chiamano scuole d’infanzia) qualche tempo fa hanno pensato di proporre dei laboratori psicologici di superamento del genere, sotto il nome di ‘Gioco del rispetto’, in cui fanciulli e fanciulle sono stati educati a scambiarsi i vestitini per sperimentare che cosa si prova in un caso e nell’altro e, scoperta dell’acqua calda, ad ascoltare il battito del proprio cuore dopo una corsa che, come si sa, è uguale tra maschio e femmina. Non a caso a Trieste c’è il più alto numero di suicidi in Italia, ho pensato. Tira un’aria un po’ così. Piove. Fa freddo. C’è la bora.
Ma anche in molte altre città italiane, Venezia, Verona, Milano, Roma, nelle scuole si propongono temi simili, si pubblicano e si diffondono libri dalle illustrazioni molto carine e dalle trame molto spiazzanti, che raccontano degli idilli familiari del bimbo con due papà, oppure spiegano, passo dopo passo, i vari tipi di famiglie esistenti – single, etero, gay e adottive e così via. Il caro vecchio Altan, quello che ha fatto crescere generazioni di ragazzi e ragazze sopra i pallini rossi della sua Pimpa e il berretto dell’Armando, si è dato da fare e ha disegnato un nuovo personaggio, un uovo bianco candido, Piccolo Uovo, che ancora non sa se sarà maschio o femmina, sta in copertina a gambe larghe con la tuba nera in testa e i tacchi a spillo rosa e intanto viaggia, tra famiglia e famiglia, per farsi un’idea su quale preferirà adottare. Sui giornali, fioccano interviste a persone che hanno cambiato sesso e che vengono presentati al pubblico come nuovi eroi, gente capace di vero coraggio e sopportazione – un tempo c’erano i volontari di guerra e le madri di quindici figli, oggi i transgender. Intellettuali raffinati come Mariapia Veladiano, che di mestiere fa anche la preside, si slanciano in interventi tra il filosofico e il paraculo:
“Quel che la scuola davvero fa, e deve, è combattere gli stereotipi di genere. Ma essere contro questi stereotipi non significa dire che il genere non esiste. Significa educare a vedere dove sta la trappola di un sé condizionato da precomprensioni che autolimitano non solo le scelte ma il pensiero stesso, il desiderio. Per cui le bambine nemmeno sognano di diventare astronaute perché la loro educazione, implicita o esplicita, ha beneducato anche i desideri. La consapevolezza degli stereotipi di genere è una conquista lenta, lo stereotipo vive di un’inerzia sociale naturale ed è funzionale al vantaggio o al potere di qualcuno. E al potere il nemico serve. Ci sono poteri che si squagliano se vien meno il nemico. E anche alla paura il nemico serve. La saldatura tra potere e paura è micidiale. Il gender è una manna. Ogni giorno un po’ e lo sdegno è servito, il nemico è servito, il pensiero è congelato e si sente meno la paura per quel che non si capisce.”
Ci si solleva in un’onda di indignazione se i sindaci o i comitati di genitori protestano e fanno ritirare dalle biblioteche scolastiche i libretti sopra descritti. Poi accendi per caso la radio e becchi l’intervento di un genitore che racconta l’aneddoto fresco fresco: un bel giorno il figlio torna a casa da scuola e chiede a mamma e papà: “Ma io sono maschio, femmina o gay?”
Sui social network si sfottono i genitori del family-day, si condividono all’impazzata articoli dal titolo tipo: “L’unica famiglia naturale è composta da due antifascisti”, si protesta giustamente contro gli ogm ma non contro chi pensa di modificare se stesso e sotto il grande ombrello deIla libertà e dei diritti si fa finire un po’ tutto, anche le assurdità.
Il genere è la nuova bestia nera, tempo qualche annetto e non si potrà più studiare la logica aristotelica, con la sua definizione da elaborare attraverso genere prossimo e differenza specifica.
Io sono la prima a non avere simpatia per i pregiudizi e le chiusure. Credo nella libertà di scelta dell’essere umano – a lui le conseguenze. Il punto è che allora non mi sembra giusto trascurare le minoranze. Non è una vera crudeltà sbattere in galera il ladro che ha svaligiato la banca, visto che il suo gesto partiva da un desiderio, e cercare di curare nelle cliniche i bulimici e gli alcolizzati (non sono forse desideri anche i loro? Non si sta alterando, dall’esterno, qualcosa che ha a che fare con la loro natura? Che cosa c’è di non istintivo in loro, vivaddio!)?. Insomma, anche tu, anche tu che leggi, se ci stai a pensare più a fondo, ti verrà sicuramente qualche grillo per la testa. Ti farai molte domande. Amletiche prima: sono maschio, sono femmina, ma, perché no, sono singolare, sono plurale. (Credo che per molte persone sarebbe un vero sollievo dichiararsi plurali, e anche un gesto di sincerità: è solo una parte di me, caro, che parla, poi c’è quella melanconica, quella isterica, quella un po’ pantofolaia, quella di donna in carriera…) E ancora: sono uomo o animale o dio? – questa, da riservare agli esperti. Infine, se dalle domande più filosofico-spirituali passerai a quelle più ordinarie finirai anche per domandarti perché diavolo non puoi andartene a Roma a prendere possesso di un pezzettino della Galleria Borghese, per esempio. Io mi accontento del ‘Ratto di Proserpina’ o dell’’Apollo e Dafne’; vi giuro che è un desiderio fresco, puro, incondizionato, non me l’ha inculcato nessuno, né la scuola, né lo stato, né i miei genitori, ho capito che è proprio mio, mio e basta, è un desiderio chiaro e tondo, per cui mollate subito le chiavi sennò comincio a inquietarmi, ho dalla mia la giustizia sociale, come sarebbe a dire che non si può, protesto per il rispetto dei miei diritti, attenzione!, è un’indecenza, bisogna organizzare una manifestazione!
Come? Non si può proprio?
Allora, ultima proposta: mi è venuta in mente una soluzione. Diciamo che possiamo trovare un accordo economico, come indennizzo. Mi accontento dei 200 milioni di euro all’anno che il governo, in questo bel tempo di crisi, stanzia per le operazioni dei transessuali (gli stessi che si lamentano perché non ritengono adeguate le strutture presenti sul territorio). Poi, visto che penso saremo in tanti ad avere lo stesso desiderio artistico, come è giusto, direi che potremmo dividerceli. Be’, penso che potremmo proprio raggiungere un accordo, sì.
Link a Cultrura, Rubrica delle Edizioni di Ar
Api, amore e fantasia (pre-ludi alla ‘questione scolastica’) – pubblicato su www.lamescolanza.com
Se avete una settimana un po’ sfigata vi capiterà di sicuro di svolgere mansioni di zia presso una Scuola Centralissima della città e nel pieno della corrente di Scipione l’Africano.
Oggi il sole non si può guardare neanche nel riflesso delle foglie, le ascelle lacrimano, i movimenti rallentano, la pressione si abbassa, di contro i tacchi delle mamme si alzano, svettano verso l’alto, diversi centimetri sopra il livello del mare. Il solo vederle ondeggiare pericolanti tra i sampietrini, con quella loro andatura da animali dell’Africa centrale, fa venire una certa nausea. Non si capisce perché molti debbano fare tanta fatica e andarsene oltre il Mediterraneo quando qui c’è tutto quello di cui può avere bisogno uno col mal d’Africa.
La scuola si trova all’interno di una vecchia corte del 1300. In prossimità del cancello, la folla si fa importante. Ha un disegno tipico, come quello degli stormi di uccelli. E’ a gruppetti, tendenzialmente di cinque o più persone contraddistinte da comunione d’interessi, per calare a un minimo di due tre, dove i due tre hanno un vago sentore di carboneria. Gli elementi singoli, che sono o evidentemente babysitter/fratelli maggiori o reietti dal consesso sociale (genitori orientali o genitori che all’inizio dell’anno avevano parteggiato per l’orario breve) paiono a seconda dei casi bimbi sperduti o incattiviti rivoluzionari. Sarebbe interessante, penso, se per una volta tutti i singoli si mettessero insieme.
Un tipo mi passa vicino, con un passo saltellato anche se avrà sui cinquant’anni. Capelli da scienziato pazzo, occhialetti tondeggianti e sorriso beota. Lo avevo visto già per strada e avevo avuto la sensazione che non avesse tutte le rotelle a posto. Invece, a quanto pare, come dimostra la borsa con la griffe dell’ateneo, lavora all’università. Pensa le apparenze.
Poi riconosco un gruppetto di mamme che ho presenti di vista.
Lì si respira un sacco di impegno. Capelli immobili, la palette del gruppo non si scosta dal bianco e dal nero, con punte di beige e grigio. Borse e scarpe coordinate, gioiellame, un sacco di diete, smalto e palestra. Eppure, spiace notare che tutto quello sforzo non abbia portato poi grandi frutti. Gli unici elementi davvero sorridenti, in tutta la corte, sono il tipo che lavora all’università, l’anoressica rossa di capelli che ha due figli ed evidentemente ride perché ha vinto il primato tra le diete, la nonna rifatta e la mamma slava rimasta vedova da poco, florida e curatissima come una zarina.
Non so se è Scipione, ma non mi sento tanto bene.
Nel gruppetto alla mia destra, le cinque mamme saranno tutte sulla quarantina abbondante. Lo sguardo mi corre senza volerlo nell’incavo delle scollature e sulle caviglie sotto il pantaloncino bianco arrotolato. Quella che da lontano sembrava la più graziosa da vicino ha la pelle talmente incartapecorita che, visto lo scenario africano, mi pare impossibile che entro poco non faccia la muta. Mi sposto più all’ombra. Anche se c’è un gruppo di api che ronzano, non importa.
Tra le mamme ne riconosco alcune. Ci sono: quest’inverno le avevo sentite che inveivano contro una delle supplenti e, a quanto ho saputo poi, sono riuscite nell’impresa di cacciarne ben tre in un quadrimestre solo. Le guardo speranzosa. Dopo un’intera stagione passata a raggrinzirsi di rughe d’espressione e a organizzare roghi di supplenti, forse adesso che l’anno scolastico è finito finalmente potranno stare in pace e si dedicheranno agli ozi romani. Finalmente l’estate libererà anche loro. Andranno in giro per locali idioti ma almeno non faranno male a nessuno. Dalle espressioni del viso è evidente invece che no. Nessuna liberazione. Nessuna tranquillità. Nessuna gioia di vivere. Niente di niente. Mi viene in mente il giardino del gigante egoista dove, anche nella bella stagione, nevicava e tirava vento.
“…a me sinceramente non va come hanno trattato Giulia nel primo quadrimestre.”
“M-mh.”
“Ma sai: lì si tengono bassi per poi alzare i voti nel secondo.”
“Sì, d’accordo. Ma loro hanno bisogno anche di qualche soddisfazione. Aveva la media del nove virgola sei e le ha messo nove. Solo che con l’ultimo voto che ha preso nel compito… Non so…”
“Dai, lei che è così brava… Uscirà sicuramente bene.”
“Eh, ma la Ludo non ragiona così.”
“Però almeno la Ludo è brava.”
“Hanno fatto un gran lavoro quest’anno.”
“Poi l’anno prossimo sono in quinta e dopo hanno le medie ed è meglio che arrivino preparati.”
“Guarda che siamo anche fortunate. Mia sorella mi ha detto che i suoi, dopo cinque anni con la Ludo, hanno vissuto di rendita.”
“Dove lo mandi, poi, il tuo?”
“Pensiamo la XXX.”
Subito, il lampeggiare di uno sguardo tra lo stupito, l’ammirato e l’invidioso delle altre, perché in questa città ci sono quattro scuole medie rinomate e quella è la Più Rinomata di Tutte.
“Tu?”
“Eh, l’anno prossimo è probabile che Jacopo andrà in Germania. Gli hanno proposto di entrare in questa accademia di musica… Sai che lui è un po’ di anni che fa violino e gli piace tanto, si è sempre impegnato…”
“Germania? Stai scherzando?”
“No no: proprio Germania. Parlano tedesco, ma ci sono ragazzini un po’ da tutto il mondo… Così fa un’esperienza che gli può servire.”
Sul gruppetto cala un silenzio – non so se pieno di gerarchia, ma di sicuro di astio e invidia.
La prima a riuscire a scongelarsi e a sforzarsi di fare un sorriso è la mamma incartapecorita.
“Una scelta bella impegnativa” soffia.
L’altra, con alzata di sopracciglia come se non dipendesse da lei e tentennamento di capo: “Eh sì. Sarà un sacrificio un po’ per tutti, vista la distanza… Ma lo vedo così convinto che non me la sento di dirgli no.”
Poi, provocate, le altre cominciano a parlare dei corsi estivi, una lunga serie in cui qualunque cosa viene insegnata in inglese: dalla biologia all’arrampicata, fino alla pesca subacquea (!), e non so se è una mia impressione ma quella del corso di arrampicata ha invidia di quella che ha scelto la pesca subacquea. Dopo ne salta fuori pure uno in Inghilterra dove però parlano in italiano.
Vedo un nonno che avevo incontrato una volta in tabaccheria, a grattare una lunga serie di biglietti della lotteria. Di nuovo il professore universitario. Un capellone, chissà se papà o cosa. Punto il capellone.
In quel momento, suona la campanella. Improvvisamente la folla che prima era abbondante ma ancora abbastanza sparpagliata sulla regione esterna al cancello ora si rapprende e non dico che non si vede più la luce del sole – quella sì, batte sempre distribuendosi democraticamente – ma di certo non si vede un tubo del portone della scuola e dei ragazzini che stanno cominciando a defluire da laggiù, accompagnati dalle maestre. Come si può immaginare, a nulla vale lo sforzo di mettersi in punta di piedi. Le mamme e le nonne si assembrano ancora di più. I maschi, un po’ perché sono pochi, un po’ per il ritegno della specie, sono più timidi. Una visione di africana solennità, certo un po’ claustrofobica, ma pur sempre grandiosa.
Ci vogliono alcuni minuti perché finalmente il groppo si sciolga, i primi genitori defluiscano, anche le seconde e terze file, e io riesca a individuare mio nipote. Mi sbraccio, così finalmente la sua maestra mi vede, lo fa uscire e ci ricongiungiamo.
L’avventura, però, è appena incominciata.
“Permesso” dico a un groppo davanti a me.
Nessuna reazione.
“Permesso” ripeto.
Niente. Si vede che Dio vuole che ascolti ancora qualche discorso. Non ho voglia di fare l’isterica anch’io, per cui ce la prendiamo comoda e scambiamo le prime chiacchiere lì sul posto.
“Gemma!” sento. “Gemma. Ascoltami. Gemma, ho bisogno di tutta la tua collaborazione.”
Per distrarmi, mi perdo a guardare un bombo che si dondola appeso al piccolo calice di un fiore.
“Vai via di lì, Riccardo, che ci sono le api!”
Una mamma di quelle di prima ce l’ha con il figlio, che si è fiondato sopra la bicicletta e sta pattinando per il cortile a tre metri dagli ultimi rami della pianta.
“RICCARDO! MI HAI SENTITOO?”
Riccardo continua a gioire della sua bici.
“RICCARDO! PUOI RISPONDERMI QUANDO TI PARLO, PER CORTESIA?!”
Riccardo se ne sta ancora pochi secondi a pattinare con i piedi e poi, per il bene di tutti, si sposta. Va verso il centro del cortile.
“Di qua, Riccardo, DI QUA, che ci sono le macchine!”
Un suv suona il clacson.
“RICCARDO!”
Il suv suona ancora. Rulli di tamburo per Rancas.
Be’, penso, perché si agita tanto? E’ così alto che in fondo Riccardo ci potrebbe passare sotto.
Il suv sgomma con l’inquilino che dal finestrino smadonna, la madre si scambia uno sguardo di disapprovazione con le altre.
“E poi dai un po’ la bicicletta anche a Fiore, che l’hai tenuta sempre tu…”
Riccardo protesta.
“Ma è pochissimo che ce l’ho!”
L’altro, che non si capisce come si chiama sul serio ma è soprannominato Fiore, ha un’aria visibilmente antipatica e a occhio e croce non dev’essere più piccolo del primo, batte i piedi e mette su il broncio.
“RICCARDO! Basta! Non essere maleducato!”
Riccardo non dice niente, riempie le guance di aria, ritorna scuro in viso così com’era prima di uscire da scuola e molla la bici all’altro bambino, che ci zompa sopra facendogli l’ultima boccaccia della serie. Riccardo, adesso a piedi, rasenta il muro, e allora finalmente la madre è in pace, non lo guarda più e si dedica di nuovo alle altre due che ha ai lati.
“Ci facciamo un’ape, dopo?” le sento dire quando riesco a superarle, stupendomi che proprio loro nutrano quest’improvvisa simpatia per gli imenotteri.
Ora che la macchina ha lasciato il campo libero, il deflusso è facilitato. Vedo una bimba in leggins fucsia fascianti, vestitino lilla e codini che sta canticchiando, fa un sacco di schiocchi con la lingua e sculetta in maniera impressionante. È talmente magnetica la somiglianza dei movimenti con quelli che si vedono nei video musicali che ci metto un po’ prima di riavermi e notare un compagno di classe di mio nipote che lo saluta con la cartella sulle spalle e una bambolina a forma di fata sfarfallante tra le mani.
Una mamma dice e ripete a sua figlia che ha bisogno di tutta la sua collaborazione.
“Vuoi andare un po’ a giocare alla play con Vittorio? Eh, Vitto? Tu cosa dici?”
Nonostante la propositività della nonna, i due ragazzini che camminano appaiati davanti a noi non rispondono perché troppo impegnati.
“Guarda!” fa uno. “Questo è l’ultimo aggiornamento ios. È una figata.”
“Cos’è?”
“Iosottopuntoquattro.”
“Figata…”
“La release del software è stata appena rilasciata in fase beta per gli sviluppatori.”
“…”
“E a fine giugno ufficializzeranno la nuova applicazione di streaming in collaborazione con Beats.”
Non fosse per il caldo, chiederei a qualcuno un buon dizionario, comincio a sentirmi un po’ spaesata.
“…E l’altro giorno sono andata in farmacia e ho detto: ‘Guardi, mi dia qualcosa per farlo dormire sennò lo ammazzo!’”
Dai che ormai forse ce la facciamo. Sono gli ultimi metri e siamo in prossimità dell’arco.
“Alla buon’ora!” strilla un tipetto che avrà sì e no sette anni al padre, uomo alto e distinto, che sfoggia pantaloni lunghi e giacchetta azzurrina anche con questo clima. “Hai fatto la stipula intanto?”
Spingo mio nipote fuori dall’ultimo assembramento, dolcemente ma con una certa decisione, con l’istinto del vigile del fuoco, e finalmente aria, siamo dove c’è ossigeno e si respira, dove si può parlare senza temere il linciaggio di mamme isteriche o di gente che chieda tutta la tua collaborazione. Camminiamo per qualche metro in silenzio, come naufraghi. Boccheggiamo. Imbocchiamo la via più tranquilla, solo tanti balconi e qualche ape, ma di quelle vere. Una è quasi obesa, e mentre si palleggia con appetito tra un calice e l’altro fa un ronzio quasi narcotico. Ci fermiamo a guardarla. Quando mi giro a dare un’occhiata distratta alle mie spalle, vedo che l’unico essere che risale la via è un tizio con camicia aperta sul torace nudo e un papillon a pallini sul collo. A mio nipote parte lo sguardo monello. Ma io gli impongo di non prenderlo per il culo. Di certo è un professore universitario.