Non era una notte buia e tempestosa, proprio no. Era un pomeriggio inoltrato, un inizio di sera, morbido come tutti i momenti di maggio, stato di grazia e delizia dell’anno, con quell’aria che ha sempre odore di rosa e pure di mare, non si sa come, e tutto ti sembra un polline e tutto ti sembra un rigoglio. Maggio, il mese dell’amore e degli amori. Io, ma penso un po’ chiunque, a maggio provo quell’incredibile senso di comunione indifferenziata col cosmo, dall’alba alla sera non faccio che comunicarmi, con il cielo cilestrino, gli amenti dei noccioli, i rami di rosmarino che escono dai cancelli delle villette, pure quelli stecchiti, i bagolari vecchi, l’asfalto e i sampietrini che a maggio diventano più belli e profumati – ed ecco spiegarsi anche quel tipico senso di stanchezza che alcuni lamentano a maggio, a forza di comunicarsi…
Insomma, si diceva, rigoglio. Nel parco dove mi trovo, zona centralissima di una affidabile città del Nord Est, il rigoglio è evidente: rigoglio di natura – i grandi pioppi frondosi che sembrano coperte imbottite e il tappeto del piccolo trifoglio che è tutto teso a gonfiarsi e crescere fino a diventare un baobab, l’acqua del canale ricca e densa, verde-melmosa – e rigoglio di umani. A poca distanza dal punto in cui sono seduta, c’è un gruppo di ragazzi sui vent’anni che gioca a pallone in maniera abbastanza imprecisa, poi, un po’ più vicino a noi, un altro gruppo, di africani, impegnati pure loro col pallone, poi ancora un’accolita di slavi alla nostra sinistra e altri individui sparsi di varie nazionalità nello spazio restante. Il tutto, la gran folla e pure il melting pot, è normale, visto che siamo a maggio e portati tutti, come si è detto, a comunicarci.
I miei due nipoti grandi se ne sono appena andati verso casa; hanno fatto in tempo a fare un ultimo giro con la bici, al limite con il bordo del canale, e a rilanciare il pallone da calcio a un africano che li ha ringraziati sorridendo a quaranta denti bianchi. La comunione, ormai è deciso, è assoluta.
Dunque, alle otto di sera, rimango io, seduta sul bordo di marmo prima della canaletta che fa il giro della piazza, a pensare a tutte le comunioni che mi rimangono di lì alla calata del buio e a osservare beata la luce serotina che si infrange sul trifoglio, sul marmo delle statue, sul tizio appoggiato a gambe distese con il libro davanti agli occhiali da sole, la schiena appoggiata alla base di una statua, sull’acqua melmosa del canale e, un po’ più lontano, sul baluginare di metallo azzurro delle tre volanti della polizia che si sono fermate, dall’altro lato della piazza, a portiere aperte. E, tra tutti i profumi di maggio, tra tutto il rigoglio e l’aria frizzantina, ti può anche capitare di essere reso leggermente più idiota del solito e di pensare che, in fondo, non dovrebbe esserci motivo, per quelle volanti, per fermarsi, e forse farebbero cosa più buona e giusta ad andare in zona stazione o ancora più in là, tanto qui siamo sereni, siamo a posto.
Ed ecco che infatti, dopo qualche minuto, le volanti se ne vanno. È giusto.
Torno a guardare in zona trifogli.
Per l’aria passa la palla colpita dagli africani che disegna una parabola niente male e si abbatte precisa contro il ramo di un albero spezzandolo di netto.
Poi, improvvisamente, succede qualcosa.
Un inghippo nel programma di maggio.
Non me ne accorgo subito, dedicata come sono al rasserenamento. Mi ci vuole il rumore di un tuffo. Il tonfo di qualcosa di molto pesante che affonda nell’acqua di colpo. Così, voltandomi a destra, vedo a pochi passi da me la testa e le spalle scure, bagnate, di uno degli africani riemergere dall’acqua, le braccia che mulinano indemoniate tra gli schizzi. Mi verrebbe quasi da sorridere, a vedere la scena, non fosse che, contemporaneamente, ci sono gli altri gesti del gruppo: un ragazzo che schizza di corsa all’estrema destra del campo, verso una delle uscite dall’isola centrale della piazza, con falcate identiche a quelle di una gazzella; un altro, sempre nello spazio dello stesso secondo, che afferra una bottiglia per il collo, la spacca sopra il muretto, minaccia un altro del gruppo; quello che indietreggia a salti, piegato, tirando in dentro la pancia; un altro ancora che si smarca dal gruppo e va nella direzione opposta al primo, alla mia sinistra, passi lunghi e una bottiglia per mano.
A condire il tutto, urla incomprensibili e altri rumori imprecisati di vetri ogni secondo.
Gli slavi prendono e smammano.
Mi alzo, con la chiara intenzione di andarmene al più presto da lì, intenzione che cozza però con l’idea di correre perché (non so perché) mi è venuto da pensare ai comportamenti che ti dicono di tenere con i cani e le bestie feroci, ovvero di non guardarli negli occhi e meno che mai di metterti a correre.
Per cui non corro, ma stringo i denti e cammino sulle mie, verso l’uscita di sinistra, tenendo d’occhio quello che se n’è andato con una bottiglia per mano e sta praticamente davanti a me, e a me pare già di sentirle che si infrangono contro il bordo del cestino delle immondizie messo da poco dalla nuova amministrazione.
Altri rumori di vetri rotti.
Insomma, da lì in poi, pochi secondi che, come scrivono gli scrittori sensazionalisti, si dilatano fino a sembrare eterni; il tempo si è rinchiuso, contratto, come mi sono rinchiusa e contratta io, il cervello che fa le proiezioni più orride e tragiche, si aspetta il contatto col vetro in tutte le parti del corpo più delicate, e nel tempo libero dalle proiezioni rumina sulle possibili soluzioni per uscire da quel labirinto di pochi metri che stanno tra me, l’inizio del ponte, i rumori dietro e l’africano davanti, che sembrano lunghissimi, pesantissimi, difficilissimi.
Insomma, quando passo sopra il ponticello e finalmente metto piede sull’asfalto, lontano dagli africani in lotta, mi sento come quando si supera una lunga malattia e si torna a uscire di casa per la prima volta, o quando si atterra dopo una tempesta in mare, la famosa felicità lucreziana, quel senso di gioia perfetta per il solo fatto di essere vivo, con tutte le tue membra al loro posto.
Certo, guardandola sotto l’influenza di maggio, ci si potrebbe ancora arrischiare a dire che, in fondo, che male c’è stato? Anzi, ho avuto l’occasione di provare emozioni forti…
Peccato che a me, in quel momento, passata l’ubriacatura dell’atarassia, sia venuta voglia di fare un discorsetto a maggio.
Considerato il fatto che nel momento del fattaccio erano le otto, c’era piena luce ed eravamo in pieno centro; considerato che ci trovavamo in una città che secondo la vulgata è pure tra le più sicure d’Italia; considerato che erano appena andate via le volanti della polizia, e, soprattutto, considerato che erano anche appena andati via due bambini; infine, considerato che il fattaccio è avvenuto circa una settimana fa, ma ieri sera alle ventuno e quaranta in una zona a due passi dalla questura c’era una situazione simile, con signori che battevano con i pugni e davano calci a auto in movimento, vorrei fare un appello agli italiani, e dire: continuiamo pure ad adorare maggio, ci mancherebbe, continuiamo a spalancare i nostri occhi sulla bellezza e a fare all’amore con gli elementi eccetera eccetera, ma conserviamo un barlume di lucidità, non facciamoci rincoglionire dalla voglia di comunicarci e aprirci al creato, perché quello che vale per il metafisico, non sempre va per il verso giusto sul piano fisico, i sogni si possono rivelare incubi, gli ospiti nemici, e perché, come dimostrano le vicende di Caio Giulio Cesare e di Marco Antonio, relativamente a Cleopatra, le chimere sono pericolose e possono rischiare di abbattere anche un impero, e infine, più modestamente, ci può capitare di dire sciocchezze tipo quelle della Moretti, di organizzare manifestazioni masochistiche o finirci dentro, di perdere di vista noi stessi a forza di metterci ‘nei panni di’, e magari, prima o dopo, tra una comunione e l’altra, di lasciarci la pelle.