Crepare di maggio – Piccolo reportage autarchico

P1010358Il sonno del giusto.

 

P1010330La tua vita si merita un fotolibro.

 

P1010354Imboscati.

 

P1010339Just glamour.

 

P1010311Mimetismo. Da Wikipedia: capacità di un organismo di imitarne un altro, allo scopo di trarne vantaggio.

 

IMG_5579Fioriture primaverili.

 

P1010318 (1)Neorealismi.

 

IMG_5577Home sweet home.

 

P1010351Finché la barca va.

 

P1010346Moby Dick.

 

P1010360Sorveglianza speciale.

 

P1010283Papà, papà!

 

P1010326 (1)Puntiamo alla massima convenienza e amiamo farvi contenti.

 

Versione 2Untitled.

 

IMG_5531Timeo Danaos et dona ferentes.

 

IMG_5545Bangla pizza e mandolino.

 

P1010368Vita e strane sorprendenti avventure.

 

P1010325Dio c’è.

Crepare di maggio

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Non era una notte buia e tempestosa, proprio no. Era un pomeriggio inoltrato, un inizio di sera, morbido come tutti i momenti di maggio, stato di grazia e delizia dell’anno, con quell’aria che ha sempre odore di rosa e pure di mare, non si sa come, e tutto ti sembra un polline e tutto ti sembra un rigoglio. Maggio, il mese dell’amore e degli amori. Io, ma penso un po’ chiunque, a maggio provo quell’incredibile senso di comunione indifferenziata col cosmo, dall’alba alla sera non faccio che comunicarmi, con il cielo cilestrino, gli amenti dei noccioli, i rami di rosmarino che escono dai cancelli delle villette, pure quelli stecchiti, i bagolari vecchi, l’asfalto e i sampietrini che a maggio diventano più belli e profumati – ed ecco spiegarsi anche quel tipico senso di stanchezza che alcuni lamentano a maggio, a forza di comunicarsi…

Insomma, si diceva, rigoglio. Nel parco dove mi trovo, zona centralissima di una affidabile città del Nord Est, il rigoglio è evidente: rigoglio di natura – i grandi pioppi frondosi che sembrano coperte imbottite e il tappeto del piccolo trifoglio che è tutto teso a gonfiarsi e crescere fino a diventare un baobab, l’acqua del canale ricca e densa, verde-melmosa – e rigoglio di umani. A poca distanza dal punto in cui sono seduta, c’è un gruppo di ragazzi sui vent’anni che gioca a pallone in maniera abbastanza imprecisa, poi, un po’ più vicino a noi, un altro gruppo, di africani, impegnati pure loro col pallone, poi ancora un’accolita di slavi alla nostra sinistra e altri individui sparsi di varie nazionalità nello spazio restante. Il tutto, la gran folla e pure il melting pot, è normale, visto che siamo a maggio e portati tutti, come si è detto, a comunicarci.

I miei due nipoti grandi se ne sono appena andati verso casa; hanno fatto in tempo a fare un ultimo giro con la bici, al limite con il bordo del canale, e a rilanciare il pallone da calcio a un africano che li ha ringraziati sorridendo a quaranta denti bianchi. La comunione, ormai è deciso, è assoluta.

Dunque, alle otto di sera, rimango io, seduta sul bordo di marmo prima della canaletta che fa il giro della piazza, a pensare a tutte le comunioni che mi rimangono di lì alla calata del buio e a osservare beata la luce serotina che si infrange sul trifoglio, sul marmo delle statue, sul tizio appoggiato a gambe distese con il libro davanti agli occhiali da sole, la schiena appoggiata alla base di una statua, sull’acqua melmosa del canale e, un po’ più lontano, sul baluginare di metallo azzurro delle tre volanti della polizia che si sono fermate, dall’altro lato della piazza, a portiere aperte. E, tra tutti i profumi di maggio, tra tutto il rigoglio e l’aria frizzantina, ti può anche capitare di essere reso leggermente più idiota del solito e di pensare che, in fondo, non dovrebbe esserci motivo, per quelle volanti, per fermarsi, e forse farebbero cosa più buona e giusta ad andare in zona stazione o ancora più in là, tanto qui siamo sereni, siamo a posto.

Ed ecco che infatti, dopo qualche minuto, le volanti se ne vanno. È giusto.

Torno a guardare in zona trifogli.

Per l’aria passa la palla colpita dagli africani che disegna una parabola niente male e si abbatte precisa contro il ramo di un albero spezzandolo di netto.

Poi, improvvisamente, succede qualcosa.

Un inghippo nel programma di maggio.

Non me ne accorgo subito, dedicata come sono al rasserenamento. Mi ci vuole il rumore di un tuffo. Il tonfo di qualcosa di molto pesante che affonda nell’acqua di colpo. Così, voltandomi a destra, vedo a pochi passi da me la testa e le spalle scure, bagnate, di uno degli africani riemergere dall’acqua, le braccia che mulinano indemoniate tra gli schizzi. Mi verrebbe quasi da sorridere, a vedere la scena, non fosse che, contemporaneamente, ci sono gli altri gesti del gruppo: un ragazzo che schizza di corsa all’estrema destra del campo, verso una delle uscite dall’isola centrale della piazza, con falcate identiche a quelle di una gazzella; un altro, sempre nello spazio dello stesso secondo, che afferra una bottiglia per il collo, la spacca sopra il muretto, minaccia un altro del gruppo; quello che indietreggia a salti, piegato, tirando in dentro la pancia; un altro ancora che si smarca dal gruppo e va nella direzione opposta al primo, alla mia sinistra, passi lunghi e una bottiglia per mano.

A condire il tutto, urla incomprensibili e altri rumori imprecisati di vetri ogni secondo.

Gli slavi prendono e smammano.

Mi alzo, con la chiara intenzione di andarmene al più presto da lì, intenzione che cozza però con l’idea di correre perché (non so perché) mi è venuto da pensare ai comportamenti che ti dicono di tenere con i cani e le bestie feroci, ovvero di non guardarli negli occhi e meno che mai di metterti a correre.

Per cui non corro, ma stringo i denti e cammino sulle mie, verso l’uscita di sinistra, tenendo d’occhio quello che se n’è andato con una bottiglia per mano e sta praticamente davanti a me, e a me pare già di sentirle che si infrangono contro il bordo del cestino delle immondizie messo da poco dalla nuova amministrazione.

Altri rumori di vetri rotti.

Insomma, da lì in poi, pochi secondi che, come scrivono gli scrittori sensazionalisti, si dilatano fino a sembrare eterni; il tempo si è rinchiuso, contratto, come mi sono rinchiusa e contratta io, il cervello che fa le proiezioni più orride e tragiche, si aspetta il contatto col vetro in tutte le parti del corpo più delicate, e nel tempo libero dalle proiezioni rumina sulle possibili soluzioni per uscire da quel labirinto di pochi metri che stanno tra me, l’inizio del ponte, i rumori dietro e l’africano davanti, che sembrano lunghissimi, pesantissimi, difficilissimi.

Insomma, quando passo sopra il ponticello e finalmente metto piede sull’asfalto, lontano dagli africani in lotta, mi sento come quando si supera una lunga malattia e si torna a uscire di casa per la prima volta, o quando si atterra dopo una tempesta in mare, la famosa felicità lucreziana, quel senso di gioia perfetta per il solo fatto di essere vivo, con tutte le tue membra al loro posto.

Certo, guardandola sotto l’influenza di maggio, ci si potrebbe ancora arrischiare a dire che, in fondo, che male c’è stato? Anzi, ho avuto l’occasione di provare emozioni forti…

Peccato che a me, in quel momento, passata l’ubriacatura dell’atarassia, sia venuta voglia di fare un discorsetto a maggio.

Considerato il fatto che nel momento del fattaccio erano le otto, c’era piena luce ed eravamo in pieno centro; considerato che ci trovavamo in una città che secondo la vulgata è pure tra le più sicure d’Italia; considerato che erano appena andate via le volanti della polizia, e, soprattutto, considerato che erano anche appena andati via due bambini; infine, considerato che il fattaccio è avvenuto circa una settimana fa, ma ieri sera alle ventuno e quaranta in una zona a due passi dalla questura c’era una situazione simile, con signori che battevano con i pugni e davano calci a auto in movimento, vorrei fare un appello agli italiani, e dire: continuiamo pure ad adorare maggio, ci mancherebbe, continuiamo a spalancare i nostri occhi sulla bellezza e a fare all’amore con gli elementi eccetera eccetera, ma conserviamo un barlume di lucidità, non facciamoci rincoglionire dalla voglia di comunicarci e aprirci al creato, perché quello che vale per il metafisico, non sempre va per il verso giusto sul piano fisico, i sogni si possono rivelare incubi, gli ospiti nemici, e perché, come dimostrano le vicende di Caio Giulio Cesare e di Marco Antonio, relativamente a Cleopatra, le chimere sono pericolose e possono rischiare di abbattere anche un impero, e infine, più modestamente, ci può capitare di dire sciocchezze tipo quelle della Moretti, di organizzare manifestazioni masochistiche o finirci dentro, di perdere di vista noi stessi a forza di metterci ‘nei panni di’, e magari, prima o dopo, tra una comunione e l’altra, di lasciarci la pelle.

Dopo di noi il diluvio


Dicono che l’America sia la culla della novità e del progresso, e su questo possiamo sicuramente essere d’accordo, se per progresso si intende una accelerata poderosa a quella famosa e sovrana legge dell’entropia che tutto regge. In America hanno inventato le patatine fritte, i grattacieli, il divismo cinematografico, il presidente di colore e, soprattutto, la gomma da masticare – che se ci pensi, come si fa a vivere senza la gomma da masticare? In America è nata la plastica. Le grandi catene commerciali. Il selfie.

L’America perciò è indispensabile, perché quando noi europei ci sentiamo un po’ mona, presi dal dubbio di vivere una vita tutto sommato non sensata, infiliamo in bocca un Brooklyn, incappiamo nelle notizie a stelle e strisce e ricominciamo subito a sentirci culle della civiltà.

In America, a Orlando, hanno da poco inaugurato un parco tematico religioso. Si chiama Holy Land Experience, si trova a poca distanza dall’area riservata al parco divertimenti Disney, è ampio 7 ettari, con un biglietto d’ingresso che costa 50 dollari (dunque sui 45 euro nostrani), e si articola come una generosa rappresentazione della nascita del Cristianesimo: con racconti di episodi della Bibbia recitati da attori microfonati, ultime cene servite ogni 45 minuti ai tavoli del punto ristorante, intrattenimenti e luoghi dai nomi evocativi come ‘The road to Emmaus’ o ‘Baptismal Pool’, Gesù, non uno, ma tanti, sparsi tra le ricostruzioni dei templi e della Gerusalemme vecchia, qualche Satana ramingo. Sulla homepage del sito, che ha uno stile a metà tra quello dei siti infarciti di virus e la grafica di un film di Bollywood, se riesci a non fare un infarto dopo aver sentito il rimbombo di una voce cavernosa che dal nulla emerge per dirti: ‘Imagine, imagine a place where you can see the Bible came to life’ e cose simili, tra i pannelli viola e oro che scorrono e pubblicizzano la ‘Calvary’s garden tomb’, ‘the Gerusalem street market’ o ‘the Great Temple’, vedrai addirittura un tasto con scritto ‘Donate – Help support the Holy Land Experience’.

Io non sono né cattolica né cristiana, né islamica né buddhista, ma penso fermamente che l’idea del divino sia importante, sia da custodire in sé, sia da osservare negli altri, come cartina al tornasole della sensibilità di un uomo. Perché il divino è il pensiero più perfetto che una mente possa concepire; è un universo di superiorità a cui aspirare, di regole paradigmatiche che, se rispettate, contengono la parte più bassa, meno divina, dell’uomo e lo portano a rinnovarsi, superare se stesso. L’idea del divino, se c’è in un uomo, coinvolge sentimenti e qualità che stanno andando in via di estinzione: lealtà, fedeltà, costanza, sincerità, coraggio di pensiero, fiducia, abnegazione per un ideale, sospensione dell’egoismo. Credo dunque che si capisca molto, di un uomo, dal pensiero della superiorità che concepisce (o anche dal fatto che non la concepisca).

Lasciando stare il fatto che io mi trovo più volentieri a parlare con gente che abbia un qualche sentimento religioso più che con gli atei perfetti; lasciando stare che, in certi casi, sia molto più religiosa l’assenza di richiami a un culto preciso più che l’aderenza ipocrita a una religione del libro che non viene minimamente sentita, ma penso che tra tutte le possibili note negative che la mitologia di un paese possa rivelare degli abitanti del paese stesso, la Holy Land Experience raggiunga il massimo. Dio, che nei secoli passati ha fondato civiltà, infiammato mistici e ispirato avventurieri dello spirito, ora è diventato una sorta di presidente di fondazione, uno di quei tizi incartapecoriti e un po’ rincoglioniti, con rispetto parlando, che si fanno partecipare alle riunioni perché si è interessati a sfruttare il loro buon nome, ma tanto si sa che non hanno più voce in capitolo e non saranno presi in considerazione. Re Vittorio Emanuele, per dire.

Non bisogna negare, però, che a parte qualche disillusione, the Holy Land Experience offra anche possibilità di esperienze spirituali. Io, per esempio, una l’ho provata di sicuro, comodamente da casa. Appena ho finito di osservare il sito, mi sono sentita presa da un vortice, e sono precipitata in quello che forse è stato un trip. Forse, una visione mistica. Mi sono vista Dio che, come nelle favole antiche, scendeva in incognito sulla terra e andava a finire lì dentro. Camminava lento, sicuro. Con la sua barba luminosa, gli occhi cilestrini. Si guardava le attrazioni, una dopo l’altra, sornione, passava attraverso le finte sabbie del deserto, sotto la ‘City Gate modeled after the Damascus Gate in Jerusalem’. Osservava imperturbabile la gente che si godeva un ‘Last snack’, i bambini che correvano con tablet e smartphone verso la ‘House of Judea’. E poi, improvvisamente, un rumore lontano d’acqua, prima simile a un semplice fragore di flutti, poi che si faceva sempre più reboante, sempre più acceso, maestoso, invincibile. Sempre più vicino.

Chi controlla il controllore?

Non ho mai avuto nulla contro chi svela le ingiustizie e le combatte, contro chi cerca di andare oltre a quello che ci raccontano i due tre giornali di punta e chi grida che il re è nudo. Anzi. Figuriamoci. Però, nello stesso tempo, ho sempre avuto la sensazione sgradevole che adesso anche svelare le ingiustizie sia diventato un mestiere fighetto, a la page, a poca distanza dai mestieri di attore, giornalista e calciatore quanto a prestigio, e che quella dei nuovi giustizieri senza macchia e senza paura sia una categoria in continua espansione. Ognuno ha una cifra propria distintiva, chi lo fa con energia, chi con malinconia, chi con divertimento, chi da solo, chi in gruppo, chi in televisione, chi sul giornale, chi in piazza, ma la caratteristica predominante di queste nuove leve è principalmente una: il moralismo. Tendenzialmente, ognuno di questi giustizieri non si accontenta e appaga di svelare il suo arcano con i mezzi a disposizione, ma ci tiene anche a fare la predica, pure a te che magari sei dal principio d’accordo. E, non so perché, ma a me in quel momento cominciano a stare sul cazzo. Sarà una idiosincrasia istintiva per chi ti vuole fare la lezione, sarà perché preferisco i fatti o anche le nude parole ai toni, sarà perché lo si sa dai tempi della scuola che quelli perfettini, allineati e sempre a posto poi dentro sono potenziali canaglie e sarà perché quando tu scopri davvero un’ingiustizia ti viene da prendere qualunque tono: brusco, violento, tragico, poetico, disincantato, filantropico, misantropico e via dicendo, ma moralistico mai e poi mai, sarà questo o quello ma quando sento certe tirate da gesuiti a me qualche sospetto viene. Così spesso mi sono guadagnata fama di stronzetta e di cinica bastiancontraria. Poi però qualche volta succede che la vera verità venga allo scoperto e che, per esempio, due giustizieri esemplari come gli inviati di Striscia la notizia Fabio e Mingo vengano cacciati per falsi servizi.

Ohibò.

Devo confessare che guardare Striscia la notizia non è mai stato uno dei miei hobby; ho sempre trovato più eccitante leggere romanzi americani, pascolare per la città o innaffiare le piante, però gli inviati ce li ho presenti e quello che mi ricordo è l’impressione che loro fossero tra i più moralisti di tutti, addirittura con una figura (quello più ciccione tra i due) deputata a trasmettere il senso di violazione etica con la sua presenza silenziosa e i suoi occhi a palla. Da un lato sono contenta, perché almeno così verrà messa una piccola pulce nell’orecchio a qualcuno di quelli che non guardano più in là del loro naso e bevono qualunque sostanza venga offerta loro dai cosiddetti opinion leader. Dall’altro canto, immagino che non sia stata una vita facile neanche la loro, quella dei due inviati: sfornare di continuo servizi eccitanti per l’italiano seduto in poltrona, ormai già viziato ad aspettarsi, con la puntualità del tramonto, uno scoop sui falsi medici, falsi astrologi e sui maltrattamenti di animali; una vita tesa tra l’ansia delle scadenze televisive ed editoriali, della concorrenza estera (le Iene, la Gabbia etc etc), e interna (tutti gli altri numerosi collaboratori della trasmissione), il lento degradarsi della qualità in quantità, la crisi del settimo anno (o giù di lì) di lavoro, le tentazioni delle veline a un passo dal luogo di registrazione. E poi in fondo l’Italia, per quanto multiforme, per quanto puttana per tradizione, è una, poche centinaia di migliaia di chilometri quadrati e anche tanta natura più o meno incontaminata, tanti insetti, scoiattoli, mare, mandolini e Borsalini e gente stesa che prende il sole e vivaddio, non è mica detto che uno possa trovare sempre, a ogni costo, qualcuno da sputtanare. E, soprattutto, verrebbe da dire, all’italiano medio, alzati un po’ tu da quella seggiola e invece di aspettare la pappa pronta che ti metta a posto la coscienza facendoti provare la tua indignazione quotidiana, pensa tu a non commettere ingiustizie, visto che ne hai una caterva, di occasioni, in famiglia, con i tuoi genitori, con i tuoi figli, al lavoro, in politica, con i tuoi gusti, i tuoi acquisti, con i libri che leggi, la musica che ascolti, i film che guardi, i tweet che mandi, i post che pubblichi, i pensieri che nutri, le cose che dici, che fai, e soprattutto quello che non dici e non fai. Verrebbe da dirgli che è tanto facile piagnucolare a posteriori che Tenco è un grande, Van Gogh un genio ed emozionarsi per Keats e Dino Campana, e così sentirsi fighi e colti, adesso che su Tenco, Van Gogh, Keats e Dino Campana siamo più o meno tutti d’accordo. Smetterla di fare i vampiri dei cazzi degli altri e dedicarsi alla manutenzione dei propri, che penso ognuno abbia – i propri cazzi, dico – travolti da una selva di erbacce in stile vegetazione malata. Visto che l’Italia l’hanno fatta gli italiani, e la crisi pure, e ora c’è anche molto da fare per disfarla, per cui impiegare del tempo e delle energie anche su quel versante non sarebbe male.

Insomma, io credo che Fabio e Mingo siano solo le ennesime vittime del sistema. In fondo, il loro peccato è stato quello di farsi prendere la mano e rispondere alle richieste del mercato anche senza che ci fossero materie prime da spendere, un po’ come il protagonista di quel dramma di Miller ‘Erano tutti miei figli’ che aveva spedito al ministero della difesa aerei da guerra difettati, e evitare di dire chiuso per ferie, ci si vede alla prossima ispirazione, arrivederci.

E adesso loro, i moralizzatori, sono stati moralizzati. Ma almeno, come tutti i fenomeni che smettono di essere falsi, sono diventati un po’ meno antipatici.

Intervista a Silvia Valerio (domande a cura di Valeria Scotti)

In questi mesi se n’è sentita dire di tutti i colori. Quale colore le manca ancora o la tavolozza delle offese altrui è completa?
«Ahimè, non ci sono più i colori di una volta. Per esempio, se me ne avessero dette di tutti i colori, ma almeno ‘con juicio’, adesso avrei qualche grazioso tocco da poter dare nella mia cameretta, che so, un bel verde-di-rabbia, un giallo-invidia acceso, un nero-fumo, un grigio-topo. Ma mi sa tanto che hanno usato acrilici e acredine, e io sono contro l’impiego di sostanze chimiche e psichiche che danneggiano l’ambiente».

Ma dov’era nascosta Silvia Valerio prima del boom?
«Nella città del Santo e dei bevitori, Padova, a studiare leggende».

Chiambretti in tv le disse ‘Se lei è vergine, allora io sono un watusso’. Lei poi, la prova della verginità, l’ha data sempre in tv dalla d’Urso previa visita medica. Che dice, si saranno convinti?
«Convinti? Vinti? Avvinti? Mah, chi può saperlo. Per sfortuna e stranamente, oggigiorno l’hobby preferito di alcuni è quello di mentire e smentire. E pur di non ammettere certe scomodità, certe verità, e certe verginità, riuscirebbero a mettere in discussione perfino l’esame scientifico. Vivere per raccontarsela – sarebbe un buon sottotitolo, prendendo ispirazione da un Garcìa Màrquez. Comunque, su una cosa possiamo andare sul sicuro: l’altezza media italiana. Che sarà in netto rialzo data la forte e improvvisa ondata di watussi del 2010».

Parliamo (finalmente) del libro. Lei è soddisfatta del risultato? Commenti/critiche che ricorda con più piacere/dispiacere?
«Risultato di quale operazione? Ecco, mi pare troppo aritmetico come termine, e dato che non ho mai avuto grande predisposizione per il ramo, preferisco usare civetterie materne in proposito. Dunque: della mia creatura sono soddisfatta eccome. È un bel figliolo, e molto simpatico… Ma forse non dovrei parlarne io. Mi appello a quel gentile signore che l’ha descritto come “la denuncia più allegra dei peccati del Duemila”. E in effetti “ghignare per non piangere” potrebbe essere il motto riassuntivo».

A chi non ha letto il suo libro per ovvi pregiudizi, come spiegherebbe il messaggio che vuole/voleva lanciare?
«Un’ode goliardica ed erotica alla Libertà. Libertà vera, non per finta; libertà non mediata e mediatica; libertà non ruffiana e populistica; libertà non prêt-à-porter; libertà non specchietto per le allodole. Libertà semplicissima e schietta, dunque forse anche ruvida, di dire fare e pensare, e soprattutto, di non dire quello che ci impongono di dire, di non fare quello che si usa fare, di non pensare quello che è obbligatorio pensare. Certo, per essere liberi, bisogna liberarsi anche dei pregiudizi…».

Oltre la verginità, lei ha un grande cervello. Su cosa lo impegnerà prossimamente?
«Ah, è un tizio molto impegnato, quello! Adesso è tutto preso da una lunga satira di costume scostumata, nel senso del solito spirito socially ‘scorrect‘. E poi ha in agenda vari altri lavori mentali part-time».

Dal sito www.telegiornaliste.com

12+1%

No, non mi sono data improvvisamente all’ottima scienza dell’aritmetica (non ne ho i numeri, povera me, e scusate il gioco di parole), non mi sono infiltrata in una setta pitagorica, neanche piccina, e non li sto dando, i numeri, così, in preda a divina manìa. Insomma: convertita alle matematiche purtroppo ancora no, e neppure impazzita. Divertita sì, però. Nel vedere quel 13 % che ha risposto al televoto di condividere la mia famigerata scelta (cfr. la trasmissione “A gentile richiesta” del 15/06 – tanto per restare in tema numerico…). Una onesta percentuale, direi, in tutti i sensi, e da celebrare almeno con queste modeste righe – tredici*, come omaggio simbolico. Onesta percentuale dicevo, e prova chiara e lampante piovuta dal cielo per sfatare il mito del tredici che porta sfiga. Prometto che da domani non ci crederò più. Ma siccome noi inguaribili superstiziosi ci mettiamo un po’ per abituarci… Abbiate pazienza. Oggi ringrazio quel 12 +1 % che ha deciso di votare.

*Mi accorgo ora che tredici erano solo in origine: nel benemerito documento word…