Sono nella mia stanza e da qualche giorno, nella piccola biblioteca che si è costruita a poco a poco sulla mensola accanto al letto, è comparso un libro dalla copertina biancorossa: la biografia di Augusto raccontata da Goffredo Coppola (edizioni Historica, per la curatela di Gennaro Malgieri).
L’insegnante che ho sempre invidiato di un’invidia impossibile agli studenti del Novecento, lo studioso che trasmetteva le vite e le idee, e non le date e le liste (della spesa) degli editti emanati e delle battaglie condotte, e l’Imperatore degli Imperatori, l’uomo, con le parole di Coppola, che parlava “elegante e temperato”, “di media statura, ma regolare e armonica, di carnagione olivastra, coi sopraccigli raggiunti, col naso aquilino, coi denti piccoli rari e scabri, […] che sorrideva di rado ma scherzava spesso ironico e puntuto.”
Ha sempre nascosto un certo mistero, questo giovanissimo, sornione, grande rivoluzionario di Roma, e ogni volta che ci incontravamo, in un’aula, a distanza di millenni, mi capitava di porgli le stesse silenziose domande. Non si trattava, e non si tratta, di interviste cronistoriche. Mi chiedevo cosa, di Ottaviano, lo abbia reso Augusto, rispetto a tutti gli altri romani. Perché questo “giovane divino” ha vinto, e non Antonio? Qual è stato il suo segreto? Cosa vedevano, del mondo, quegli occhi appuntiti?
Sarà che la mia simpatia per la storia è soprattutto attrazione per le storie, interesse per quella materia magmatica che è l’umano, e ricerca di un senso che si possa trasportare fino alla vita di adesso, ma la mia lettura del testo di Coppola è stata sotto questo segno. E la sua scrittura, proprio per l’attenzione ‘vitale’ ai personaggi studiati, avvicina molto alle risposte.
Il Professore ha un grande talento per la narrazione. Tra data e data, porta così accanto alla figura di Ottaviano che si sentono il profumo d’olio della sua toga e lo zucchero degli acini d’uva tra le dita, quei chicchi che sbocconcellava spesso come pasto insieme a un po’ di pane secco, tra un compito quotidiano e l’altro. Che si rapporti con il Senato, con il popolo, con la pesante eredità passatagli da Cesare; con la coppia disordinata e piena di fuoco, Antonio o Cleopatra; che si trovi in battaglia o costruisca la sua grande Pace; che conquisti o che stabilizzi; che disegni, centimetro di terra per centimetro di terra, il nuovo mondo di Roma, Ottaviano è uomo più politico che militare, più mente che spada sguainata; è un esercito che ti passa accanto “silenzioso e freddo”, “abile di agilità quasi felina”, “rivoluzionario che non distrugge”, capace di crudeltà senza peso, lontane da vendetta, astio o qualsiasi altro sentimento che non sia quello della sua giustizia. E poi è uomo dalla dolcezza quotidiana, dalla battuta ironica, dalla “curiosità penetrante e sottile”, Padre della Patria capace di attenzione genitoriale, buona ma senza picchi, e pieno d’amore per l’arte e chi avesse ‘la voce’. È l’uomo che tutto controlla, capace di fondersi con lo Stato fino ad annullare le reciproche distinzioni e, in questo, sembra davvero ‘divino’: non fatto, come tutti gli altri uomini, di carne, acqua, muscoli, organi, movimento, ma della sostanza impalpabile e fresca del suo destino.
Anche il suo rapporto con la sorte non è animato da altre sfumature che dal sentimento dello Stato (apparentemente, l’unico sentimento da cui si sia fatto attraversare), a partire dal suo rifiuto giovanile a farsi leggere l’oroscopo dagli astrologi, per non far sì che qualche presagio potesse interferire (ben diverso dal più acceso e forse troppo umano Cesare, che interpella le stelle e le sfida, prima di camminare verso le ventitré pugnalate), fino alla sua riscoperta del culto della Fortuna, vista non più come “dea del capriccio o dell’imprevisto, ma il premio della virtù romana e la dea dei ‘forti’”, accompagnata dalle qualifiche di Victrix e Tutela.
È l’uomo impassibile di fronte agli amori, che schiaccia qualsiasi eccesso o lusso materiale inopportuno, qualsiasi debolezza del suo fisico o delle sue abitudini sotto l’altezza della sua Gloria. Perché “qualunque cosa Ottaviano facesse, egli la faceva con freddezza animosa.”
Con quei suoi “occhi neri che più guardano negli occhi degli altri uomini più gli suggeriscono di rimanere solo, lo hanno reso impenetrabile e scettico di questo nostro intelligente scetticismo che ci permette di aver fiducia senza tuttavia abbandonarci mai ciecamente, e che non è diffidenza, ma serenità e lucida coscienza della fragilità delle umane cose”; con quella sua morte lieve così come paradossalmente lo sono stati tutti i suoi giorni d’Impero, una “commedia da recitare”, Augusto mi ha sempre ricordato il verso di un poeta greco del Novecento, Nikos Katzantzakis: “Non spero niente/ non temo niente/ sono libero.”
È con questa libertà immensa che l’Imperatore ha saputo fare della propria vita un’opera d’arte di gerarchia. Sembra che Augusto sia arrivato per destinare e dimostrare la rovina di tutte le passioni sfrenate, dopo averle sublimate, in una concomitanza storica curiosa e a una ridotta distanza fisica rispetto a un altro personaggio che dalla Passione invece è stato segnato in molti misteriosi sensi.
Con questa sua assenza, larger than life, di emozioni semplici, su cui sicuramente le riviste di psicologia contemporanee avrebbero tanto da ridire, Augusto diventa un personaggio da romanzo, oltre l’epopea di Virgilio.
Non dirò le risposte che mi sono arrivate da lontanissimo, credo che ciascuno debba trovare le proprie.
C’è un’immagine, in particolare, che mi piace isolare, chiudendo il libro. Più che un’immagine è un suono. Mi fa pensare a un filo teso per innumerevoli chilometri tra mondi a prima vista opposti.
Coppola racconta la commozione di Augusto a sentirsi leggere le Georgiche da “quel poeta sensibile a tutto ciò che fosse bello e buono, e che appariva gentilissimo e affettuoso pur nel viso secco da contadino”, quel poeta di cui è amico, fino al momento della sua morte, quel giorno in cui “non diremo nessuna fantasticheria retorica, se qui scriveremo che sul viso pallido di Augusto scese silenziosa una lacrima”.
Il suono che ho sentito è il rumore giapponese di quella lacrima.