Buongiorno Silvia e buongiorno Anna. Partirei dal titolo del romanzo: “Non ci sono innocenti”. Come avete l’avete scelto? E cosa significa “innocenza” in questo mondo? Ed è mai esistita l’innocenza?
(SILVIA) ‘Non ci sono innocenti’ è la risposta di un anarchico francese, al poliziotto che lo arrestava e gli chiedeva perché aveva compiuto un attentato dove potevano esserci anche dei bambini, anche degli innocenti. Essere innocenti vuol dire essere liberi da colpe, nei confronti del mondo, dell’esistenza. Non aggiungere male al male che già lo costituisce. Da una parte siamo tutti responsabili: perché le nostre vite si compongono di quello che facciamo e anche di quello che non facciamo (i peccati di omissione spesso sono le colpe più crudeli, lancinanti). Dall’altra, c’è la possibilità di pensare, come suggerisce la fine del libro, che noi, con i nostri caratteri, le nostre vocazioni, siamo creature del Caso, burattini nelle mani degli Dei. E quindi, in un certo senso, non del tutto responsabili. Colpa, Caso, innocenza: tutto il libro ruota intorno a questi temi.
(ANNA K.) “Non ci sono innocenti” è una battuta rubata a un ingegnere anarchico francese cui si accenna nel libro. Ma è anche una constatazione amara che chi si muove senza pregiudizi nel mondo non può non fare. Ogni giorno. La politica dovrebbe contenere questa deriva: così è nelle intenzioni dell’Autocrate, il protagonista del nostro romanzo – forse il più innocente di tutti, se innocenza significa rettitudine e generosità.
Ho letto in un’altra intervista che dietro questo romanzo ci sono stati anni di duro lavoro. Come è nato questo libro? Perché avete sentito l’esigenza di scriverlo? Quanto c’è di invenzione nel libro e quanta invece realtà?
(SILVIA) Questo romanzo è stato un addestramento militare. A me, che quando ho iniziato a scriverlo ero impaziente e per la scrittura di fuoco: quella che sgorga, brucia e si esaurisce subito, ha insegnato la costanza della ricerca, la consapevolezza della necessità, un certo equilibrio tra stili, la moderazione, la sicurezza, la caparbietà. E come ogni addestramento militare, mi ha fatto sperimentare la sofferenza, il tormento, l’insoddisfazione, la voglia di superare i limiti, il dolore delle pagine buttate, il senso di spaesamento tra un momento di scrittura e l’altra.
I romanzi mi hanno sempre affascinata moltissimo, per la potenza della scrittura narrativa moltiplicata dal peso della storia ampia e per quella energia magica in grado di penetrare i cuori delle persone. E da parecchi anni giravo intorno all’idea di provare a scriverne uno. Trovavo però detestabile dedicarmi a una delle storie solipsistiche e autoerotiche tipicamente moderne. Gli appunti raccolti da Anna durante le conversazioni con Giovanni si sono rivelati la cosa più preziosa che potesse capitare. Non c’era solo un grande romanzo, lì, c’era anche la possibilità di spazzare via qualche leggenda metropolitana di troppo e di dare giustizia a certi personaggi. Così li abbiamo presi in mano e abbiamo cominciato a lavorarci, proponendoci di rispettare il più possibile la traccia offerta. Salvo qualche piccolo escamotage narrativo, garantisco che c’è molta più onestà in questo romanzo che in tanti saggi di (fanta)storia.
(ANNA K.) Questo libro doveva essere scritto, tanta era l’ignoranza interessata intorno a Freda, Ventura etc… E quando una cosa va fatta la si fa, costi quel che costi, anche se la fatica di far rivivere un’avventura del genere è stata enorme. Di invenzione non c’è nulla, a parte il colore di qualche giacca e i nomi dei personaggi.
Vi considerate le “cattive scrittrici” contemporanee? Mai ricevuto commenti poco lusinghieri, offese o minacce?
(SILVIA) Facendo l’occhiolino al mondo pop, del cinema e dell’arte, e dunque in senso ironico, esagerato, sì, la definizione di ‘cattivo’ non mi dispiace. We are ugly, but we have the music… Rimane il fatto che non ho mai trovato persone tanto buone e generose come tra quelli che l’italiano medio considera i cattivi (e viceversa). ‘Cattivo’ di solito è quello sincero, quello che si ribella – il bambino terribile che si è accorto delle falsità del mondo degli adulti e non vede perché ci debba stare – quello che non sopporta il compromesso, che si vota a una causa anche se sa in partenza che sarà dura. Quello che si è stufato di ascoltare la storiella apparecchiata dal buono di turno. Cattivo è tutto quello che non sta nei ranghi della modernità ipocrita, che non si riesce a capire e a controllare. Cattive sono le parolacce, soprattutto quando le dici al momento giusto, nel mondo dei semitoni dei buoni. Avrai visto il bellissimo film di Scorsese, The Departed. Ecco, la questione del bene e del male è troppo complessa, troppo grande perché qualche esperto di sociologia riesca a dire l’ultima parola – ed è un altro dei temi del libro: sono più cattivi quei ragazzi che raccolgono armi contro il Sistema o gli industriali che avvelenano a piccole dosi decine di operai che lavorano nelle loro fabbriche? È più cattivo Giulio che va a letto con una signora del doppio dei suoi anni o la signora che pretende amore esclusivo da un ventiseienne così ‘particolare’? Come dice il protagonista del libro, la verità ha molti livelli, molti gradi, e questo mondo moderno ha davvero poco da giudicare.
Quanto a me, io ho avuto modo di sperimentare la democratica bontà degli italiani al tempo del piccolo pamphlet che ho scritto nel 2010, C’era una volta un presidente. Una parte considerevole della penisola si è data la pena di intasare blog e social network con il proprio buon cuore, raggiungendo il sublime della metaletteratura etica.
(ANNA K.) Negli ultimi anni non ci siamo fatte mancare niente. Offese, minacce… Forse per quello abbiamo scelto un titolo che rimbomba. Ma non siamo delle bad girls: non ci compiacciamo di esaltare ciò che nel mondo è storto e non funziona. Chi ci conosce bene lo sa.
E come vi siete divise la scrittura? Personalmente fatico a pensare di scrivere qualcosa con un’altra persona. Prima avevate scritto poesie e pamphlet, è stato difficile passare alla forma romanzo?
(SILVIA) La grande fortuna mia e di Anna è che ci siamo sempre trovate benissimo insieme e, partendo da interessi e idee comuni, abbiamo capacità e talenti diversi, spesso complementari. Così, prima ci siamo divise i compiti, poi, di volta in volta, rileggevamo, integravamo, approvavamo, gettavamo. Certo, il salto dalla scrittura di respiro breve al romanzo dà le vertigini. Il romanzo, come qualsiasi esercizio di tenuta, richiede un’attenzione esclusiva e una grandissima energia fisica e mentale: talvolta mi sono alzata dalla scrivania, senza essermi mossa per ore, molto più stanca che dopo un allenamento sportivo.
(ANNA K.) Io l’ideologia e la struttura; mia sorella la carne e il respiro. Circa così. Ma poi abbiamo ruminato talmente tanto l’una le parole dell’altra che non ce n’è più una che sia solo mia o solo sua. È stato difficile soprattutto soffocare l’impazienza, imparare la gradualità, costringersi al chiaroscuro, a parlare attraverso le cose e non i pensieri, a cambiare pelle insieme ai personaggi. Dopo questo romanzo, tutto ci sembra una passeggiata. A parte il mal di vivere – che è aumentato sensibilmente, almeno in me.
La reazione delle persone direttamente coinvolte come è stata? Il romanzo è tra l’altro dedicato a Giovanni Ventura.
(ANNA K.) È dedicato a Giovanni perché senza i suoi racconti non avremmo mai potuto scriverlo. E spesso, ricordando lui e le sue parole, le sue parole e lui, mi sono ripetuta il grido (il “llanto”) disperato di Garcìa Lorca: “No te conosce nadie, no, pero yo te canto”… Freda, per parte sua, ha subito l’agguato e, da gentiluomo, ha lasciato fare.
Cosa significa, Anna, vivere al fianco di una persona come Franco Freda e scriverci anche sopra un romanzo? Chi è per te Franco Freda?
Un romanzo pieno di superlativi. Ma in “Non ci sono innocenti” li ho cassati tutti. Per un necessario pudore.
Più che un romanzo storico “Non ci sono innocenti” mi è sembrato un romanzo di formazione esistenziale e politica. Con un’atmosfera quasi picaresca, dove si respira un’aria di ribellione giovanile molto molto forte. Un romanzo che parla con voce forte al cuore anche di coloro che non hanno vissuto quegli anni.
(SILVIA) È certamente un romanzo non solo storico, con le componenti che hai nominato. Uno degli intenti era anche che parlasse proprio ai ragazzi della mia generazione, e poi a quelli degli anni prima, e di quelli dopo, a tutti noi figli delle crisi, dell’inutilità della globalizzazione. Non si può germogliare e crescere nell’apatia, nel vuoto, nella disperazione: credo possa venirci qualche buona ispirazione dall’immersione in quell’epoca in cui tutto era ideale e agitazione.
(ANNA K.) Non direi violenza: meglio volontà.
Non l’ho nemmeno trovato un romanzo di destra, eppure è un romanzo dove si respira l’aria del fascismo, della voglia di riscossa, del nazionalsocialismo e molto altro. Cosa rimane oggi di quelle idee? Di una violenza in grado di ribaltare il mondo?
(SILVIA) Credo rimangano dei semi, delle ispirazioni.
(ANNA K.) Cosa rimane? La volontà, appunto, l’“apetito de lo grande”. In pochi, ma rimane e rimarrà sempre. Finché i pochi non ridiventeranno tanti.
Quanto vi interessa la politica e la politica attuale? A me personalmente molto poco. Ma cosa non vi piace particolarmente dell’Italia del 2016?
(SILVIA) Se per politica intendiamo quel giochino per cui uno fa tanti sforzi, fa tanti viaggi e fa tanto l’ipocrita per poi, una volta ottenuto il posto che desiderava, considerarsi in vacanza e lasciare che le cose vadano come sono sempre andate, allora no, non mi interessa per niente. Mi dà addirittura fastidio. Il problema sta proprio qui: nel fatto che ormai siamo abituati a considerare questo la politica. Il problema sta nel fatto che un politico, più che del problema da risolvere, si deve preoccupare del proprio tono di voce e del portare o meno la cravatta per risultare più affidabile. Perché, si sa, la gente vota un candidato non in base a ciò che pensa sappia fare ma a seconda della capigliatura, degli anni di matrimonio, del tono di voce, dell’animale da compagnia. Renzi è l’ultimo anello della catena del ‘non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace’ partita molti anni fa. Finché anche chi potrebbe essere un buon politico si deve preoccupare di queste cose da nulla, è ovvio che verremo travolti dai migranti e dai transessuali, mentre finalmente avremo indovinato il colore di camicia che si abbina bene alla cintura.
Quello che mi interessa è trovare il modo per vivere e far vivere in un mondo un po’ migliore rispetto al peggiore dei possibili, come lo definiva Campana. Un mondo dove non ci si debba preoccupare delle questioni di base – avere un lavoro per mantenersi, non rischiare la vita prendendo un treno o camminando per le strade della propria città, bere acqua non avvelenata e mangiare cibo sano, non ammalarsi di cancro – e neanche di problemi fantascientifici come il gender, le stepchild adoption e tutte le possibili perversioni umane e sessuali che un narratore erotico fantasioso possa immaginare, le costruzioni di moschee, i rom da sistemare in appartamento – ma in cui si possa pensare a come educare i bambini perché crescano forti, come propiziare la salute e i talenti delle persone, valorizzare l’arte, la cultura e la bellezza, riconcepire l’economia e le città perché siano più razionali e possano far vivere meglio le persone, diffondere la meritocrazia e abbattere la burocrazia.
Ho la sensazione che se se ne andassero solo alcune di quelle migliaia di persone che intasano gli intestini della politica con la loro pigrizia e i loro interessi, anche mettere in pratica qualcuno di questi propositi sarebbe molto, molto più semplice.
(ANNA K.) La politica mi interessa enormemente. È l’arte dell’umano, è il senso che si dà al tempo, l’impulso per il meraviglioso, vita potenziata e moltiplicata per 59,83 milioni (fermandoci alla sola Italia), è bellezza da esaltare, è fantasia che ci libera dall’inerzia. Politica è questo. Non è la semplice amministrazione dei conti pubblici o delle metropolitane o dei parcheggi. E pensare che quei cialtroni che la tengono in pugno oggi, la politica, si perdono a intascare mazzette – invece di inventare il reame incantato del futuro… Che scialacquatori!
Nel vostro romanzo vengono citati molte opere altrui. Che ruolo hanno avuto e hanno i libri nella vostra vita? Su quali testi vi siete formate e quali sono recentemente i libri che avete maggiormente apprezzato? Oggi sembra che i libri siano diventati solo oggetti da riporre in qualche scaffale o di cui discutere in qualche talk-show mentre nella vostra opere i libri letti diventano fonte di ispirazione, motivo di dibattito, scontro, amore.
(SILVIA) ‘Camerata, questo non è un libro,
chi tocca questo libro tocca un uomo,
(è forse notte? siamo soli forse qui insieme?)
Sono io quello che tu tieni e che ti tiene,
da queste pagine balzo tra le tue braccia – la morte mi fa risorgere.’
Amo i libri di tutti i generi: romanzi, saggi, poesie, aforismi, libri fotografici, graphic novel. Mi basta che siano belli e abbiano significato. Come i grandi della lingua italiana: Manzoni, Verga, il D’Annunzio più autentico, Collodi. Sciascia, scrittore meraviglioso, per la lingua, l’intelligenza, l’indagine dell’umano. (Sciascia letto per la prima volta per strada, perché al liceo si era indietro col programma…) Caproni. Le poesie e i canti popolari. Le poesie di Majakovskij. Il romanzo di Merezkovskij su Giuliano. In alto le forche, di Freda. I futuristi. Gli aforismi di Gomez Davila da leggere in continuazione, a intervalli regolari, rimasticare e interrogare.
(ANNA K.) Un ruolo fondamentale nella formazione, certo, ma non più significativo di quello che ha avuto un’esperienza di vita fuori dall’ordinario. Dopo anni di ingordigia letteraria, adesso mi pongo più limiti nel leggere e ho sempre cura di esplorare la vita, di radicarmi nel reale. E spesso mi accorgo di preferire il rileggere al leggere. Gomez Davila, Cristina Campo, i poeti – soprattutto.
Nel romanzo compaiono molte scene di sesso e le donne appaiono solo come figure di madri o di fedeli/infedeli compagne di letto che vivono una situazione di passaggio (il divorzio, la chiusura delle casa chiuse, aborto, femminismo). Cosa pensate dell’emancipazione femminile? E come vivete da donne questa presunta modernità con tanto di utero in affitto?
(SILVIA) Come avevo raccontato al tempo della polemica intorno a C’era una volta un presidente, io che mi ritengo femminista, nel senso semplice, non storico, del termine, penso che il movimento anni ’70 sia stato profondamente antifemminista. Ha provocato il deprezzamento della sessualità, lo snaturamento delle caratteristiche della donna, il qualunquismo, l’incertezza. Finché poi, se andiamo avanti di questo passo, finiremo felicemente violentate e infibulate da qualche ‘risorsa’.
Penso che per valorizzare le caratteristiche della donna e permetterle di esprimersi al meglio ci voglia un po’ di equilibrio intelligente tra l’amore libero e le spose bambine.
(ANNA K.) L’emancipazione femminile, ridimensionando la polarità tra i generi, ha fatto un sacco di guai. Ci sta rubando il desiderio e ci ha dato in cambio gli affanni della carriera. Al tempo dei contratti a termine, poi… Bella roba. Con questo non voglio dire che tornerei al tempo dei padri padroni e dei mariti violenti, che erano le derive del genere. Ma al tempo dei maschi maschi sì. Di corsa.
Per chiudere, cosa vi andrebbe di dire a un possibile lettore che ha paura di leggere il vostro libro?
(SILVIA) Mi sento un po’ Osho, ma: ‘Fa’ sempre quello che hai paura di fare’.
(ANNA K.) Pèntiti!