“Finché non diverranno coscienti della loro forza, non si ribelleranno e, finché non si ribelleranno, non diverranno coscienti della loro forza” scriveva Orwell, che ha fatto della cultura il banco di prova della propria ribellione. Ne abbiamo parlato con Matteo Strukul, autore della saga di Mila (La ballata di Mila, Regina Nera, Cucciolo d’uomo, tutti E/O) e di romanzi storici noir ambientati nella Padova in cui è nato (La giostra dei fiori spezzati e Il sangue dei baroni, rispettivamente usciti per Mondadori e Fanucci) e fondatore e direttore artistico del festival SugarPulp (anche movimento letterario e magazine), che da cinque anni porta in Veneto, tra Padova, Rovigo e il Polesine, graphic novel, cinema, musica e autori maledetti come Jeffery Deaver, Joe Lansdale, Victor Gischler, Tim Willocks, con l’intento di distaccarsi dalle mode solipsistiche di una certa letteratura italiana e riattivare la passione per la narrativa forte e sincera, fatta di carne e sangue e terra. Il festival di quest’anno ha come tema i ribelli: chi slega i lacci, chi abbatte muri, chi preferisce la solitaria brutalità delle campagne a una conversazione di circostanza in giacca e cravatta. Ribellarsi è tornare padroni della propria identità, per salvarsi. È fare un’inversione di marcia rispetto al corso del proprio tempo e andare a prendersi quello che ci appartiene.
La città che da sempre è stata incerta tra sottomissione ed eversione, obbedienza e iniziativa, apatia e rinascita, Padova, mano a mano che accoglie tra le proprie piazze scrittori noir e appassionati dai baffi curvi e dalle capigliature barbare, diventa sempre più buia.
Che cosa significa ribellione e perché ha senso oggi?
La ribellione passa per la cultura. Oggi, in questo paese, credere nella cultura, pensare che con la cultura si possa fare anche economia, introito, indotto, all’interno di una città, magari con una manifestazione, è già un atto di ribellione. Attraverso la letteratura e gli incontri sulla letteratura è possibile ritrovarsi, ritrovare i rapporti tra persone. Oggi il nostro paese vive una crisi culturale, non economica, e noi vogliamo ripartire da qui. Ormai non abbiamo più niente da perdere. Siamo gli outsider. E quindi cavalchiamo questa tigre un po’ sdentata. Ma ci crediamo ancora.
Quali figure di ribelli – al maschile, al femminile – preferisci ricordare, nella storia e nella cultura?
Sicuramente Janis Joplin, Amy Winehouse. Ma anche Jane Austen, un’autrice che con i suoi personaggi ha cambiato il concetto di letteratura e di figura femminile all’interno delle storie, così come ha fatto Alexander Dumas con il personaggio di Milady de Winter, O anche Mary Shelley, autrice di Frankenstein, che insieme a Bram Stoker ha creato quel nuovo genere – il gotico – che ha rivoluzionato la letteratura della fine dell’’800. Poi, un ribelle è Umberto Eco, perché quando ha scritto Il nome della rosa e ha voluto selezionare i propri lettori attraverso le prime cento pagine, pagine dense, fitte, non semplici, ha fatto un’operazione molto interessante. Poi, ha proposto un libro che partiva come una storia nera, ha scavalcato il genere e sdoganato quel tipo di romanzo facendolo diventare romanzo letterario tout court. Se oggi, in Italia, paese piuttosto bacchettone e poco ribelle, noi scriviamo, e scriviamo libri di questo tipo, lo dobbiamo a lui.
I giovani di oggi sono davvero ribelli?
I giovani non vivono affatto la ribellione. Arrivano da una situazione molto complicata: le generazioni precedenti, dei padri, hanno stuprato le nuove generazioni. Però spesso questa situazione diventa una scusa per arrendersi, fermarsi, aspettarsi molto. È vero che c’è poco da offrire, però è anche vero che bisogna andare a prendersi ciò cui si ambisce.
La cultura, intesa come letteratura e anche come lettura, come storie, discussioni da condividere su un romanzo o un film, è un buon modo per ripartire. Questo è un paese che nasconde moltissimo. Il cinema italiano, per esempio, oltre al tanto decantato neorealismo, ha avuto anche lo spaghetti western, l’horror, il poliziottesco… Con padri di generi cinematografici come Sergio Leone e Dario Argento.
Sarebbe bello che oggi il cinema italiano, come anche la letteratura, provassero a ripartire da quelle radici. Ripartire da qui per cercare di affermare la propria individualità, per dire ‘io non ci sto, voglio dire la mia’. Bisogna poi riconoscere le persone della propria tribù, i sognatori, chi vuole cambiare il presente con le proprie idee, e andare sul sentiero di guerra.
Ribellione per riconquistare una vita degna di essere vissuta. Per cosa vale la pena vivere?
A me piacerebbe riportare la vita, quella di ogni giorno, a una dimensione più umana. Una dimensione che ho trovato molto nei paesi dell’Est. La cosiddetta Mitteleuropa, oggi, è la nuova Europa. Andate in Romania, in Transilvania. A Budapest, Praga, Berlino. Lì, c’è il nuovo che ritorna. Lì si riparte da quello che di buono il modello occidentale ha perso del passato. E che andrebbe ripreso. È quella dimensione che si è persa in nome di un progresso tecnologico incredibile, che però tanto spesso appiattisce e asciuga i contenuti. Senza voler fare i nostalgici, la nuova sfida di oggi è andare a prendere quanto di buono appartiene a quella dimensione di vita più umana, più bella, più piena. Tornare un po’ indietro per andare avanti. Ho la sensazione che siamo stati superati dalla creatura che abbiamo costruito e che ci stiamo andando a schiantare contro un muro. Sarebbe bello frenare e provare a fare una deviazione.