Ha iniziato la sua domenica di scorribande parlando delle quartine del poeta persiano Omar Khayyam, così simili per vertigine al Pascoli cosmico, e poi delle migliaia di libri che tiene in una biblioteca immensa e rivaleggiano in numero con le sue conquiste femminili, delle letture adolescenziali proibite, nel collegio di Este, quando si beccò una sospensione per aver infilato di straforo capitoli fascicolati di “Senilità” di Italo Svevo tra le pagine della Sintassi Latina. Vittorio Sgarbi ha firmato la direzione artistica della prima edizione del festival “Babele a Nord Est”, che ha portato a Padova, dal 18 al 23 ottobre, un certo scompiglio culturale e parecchie centinaia di visitatori nelle splendide sale affrescate della zona centrale. Ha proposto un calendario ricco e fuori dall’ordinario, in cui si è dibattuto di arte, libri, Islam, libertà femminile, dei nuovi terrorismi come l’antirazzismo, in cui si sono ritrovati e ricordati grandi scrittori veneti come Meneghello, Berto, Comisso, Cibotto, Vighy, con ospiti, teatro, musica e letture che si intersecavano in maniera insolita e vitale.
Pieno di energia, oratore ironico, generoso, coraggioso e praticamente ubiquo, Sgarbi odia i jeans e la Coca-Cola, ama fare a botte con gli stereotipi, portare su terreni nuovi, sbugiardare, smontare gli idoli della stupidità contemporanea, spingere all’autonomia di pensiero. E non c’è dubbio che i suoi paradossi siano più autentici della serietà ipocrita di chi dà compassate ricette di vita passando in rassegna il vestiario del re nudo.
“Se vuoi diventare una guida” dice lui, “devi dubitare delle guide.”
E noi potremmo fargli eco, per descriverlo, con un aforisma di Gómez Dávila: “Nelle epoche senza stile, l’unica opera d’arte è la nuda intelligenza.”
A pochi metri di distanza dal Palazzo della Ragione, abbiamo parlato di arte, rivolta, bellezza, filosofi e schiene di donne. (Le schiene, ahimè, nell’intervista non le trovate…)
Per fare una rivoluzione…
Una carica di cui posso vantarmi è quella di assessore alla Rivoluzione del comune di Urbino… L’attività politica e culturale fatta in modo non passivo apre sempre qualche breccia. Può favorire un pensiero autonomo, stimolare a non seguire le banalità di oggi. La mia rivoluzione l’ho cominciata quando fui il primo, negli anni ’90, a pronunciarmi contro l’azione giudiziaria di Di Pietro. Fare una cosa del genere, in quel momento, era quasi irreale. Tranne chi stava sulla difensiva, chi veniva accusato e quindi doveva per forza difendersi (e forse contrattaccare), la gente era tutta con i giudici. Dalla parte – per così dire – ‘sbagliata’, in quel momento, c’ero solo io e operavo una rivoluzione di fatto. Cercavo di consentire che ci fosse un pensiero non unico. All’epoca, se avessero chiesto in giro “siete d’accordo se Di Pietro spara alle spalle di un corrotto?”, il 90% degli italiani avrebbe risposto di sì, con la legittimazione di un’azione totalmente priva di rispetto dei principi elementari del diritto.
Le rivoluzioni le ho sempre fatte con il solo strumento dell’autonomia di pensiero, appoggiandola poi a qualche ruolo politico o culturale istituzionale: perché se sei deputato, come io lo sono stato, le cose valide le puoi dire in una dimensione di maggiore diffusione e incidenza. E così se sei direttore di un festival… Lo stesso Grillo, che ha tentato di fare la sua rivoluzione, ha dovuto entrare nell’agone politico. Anche il pensiero puro può ottenere dei risultati, ma sono più lenti.
Come sono i giovani di oggi? Ribelli? Vogliono qualche rivoluzione?
Ho qui una fotografia di Bertinotti che scende dal nostro convegno e incontra un gruppo di giovani comunisti: si mettono ad alzare il pugno per una rivoluzione improbabile cui, evidentemente, ancora credono. [Sorride]
Non saprei… Dei giovani so abbastanza poco. Mi sembra che siano più riflessivi di noi, più curiosi, più informati. Sono stati molto favoriti dalla tecnologia: quello che hanno perso di libri hanno guadagnato di internet. Ma non ho la sensazione che ci sia uno spirito di ribellione: piuttosto una forte capacità critica, che non so se sia sufficiente.
Che cosa pensa della scuola di oggi?
Tendenzialmente la odio. Ho un’antipatia profonda per la scuola. Ho insegnato, anche, e ho avuto ottimi allievi (quando faccio una cosa mi piace farla bene, altrimenti perché la faccio?); sono stato bravo. Però non è il luogo dove mi trovo. Preferisco la televisione, perché parli a molti ma non li vedi. Invece a scuola devi parlare a pochi, li vedi pure, ti rompono… Poi metti che una vorresti scopartela perché ti piace, ti distrae: è tremendo… [Sorride] No: non sono un uomo da scuola…
Come si potrebbe cambiarla in meglio?
La migliore riforma è un bravo insegnante, come un bravo giudice è meglio di qualunque legge. Tu fai una buona legge con un cattivo giudice e hai un esito; fai una cattiva legge con un buon giudice e tutto funziona. Quindi, sta tutto nella qualità di quelli che sono chiamati a insegnare, che spesso risultano inadeguati o insufficienti. ‘L’attimo fuggente’ dimostra che quando un professore funziona tutto va bene. Ma tra i tanti docenti che ho avuto, quelli buoni che ho incontrato erano forse uno, o un paio, su venti.
Nicolás Gómez Dávila scrive che “Cospirano efficacemente contro il mondo attuale soltanto coloro che diffondono in segreto l’ammirazione della bellezza”…
La parola ‘ammirazione’ l’avevo usata per i festival che facevo ogni giorno a Salemi: era un concetto di Cioran per indicare che c’è un moto di partecipazione a un libro o a un autore nell’ammirazione: è un sentimento positivo, che stabilisce un’empatia. Diffondere la bellezza è, ovviamente, il compito di ognuno di noi che ci occupiamo di questa materia. La formula “la bellezza salverà il mondo”, però, è diventata molto retorica, molto usata e abusata, ed è imperfetta. Nell’emergenza dell’assenza di sensibilità e della violenza del nuovo, del cosiddetto moderno, occorre che sia il mondo a salvare la bellezza. Perché se tu non salvi l’atmosfera che c’è sotto questi portici, fai passare l’idea che tutto debba essere modernizzato, e l’orrore domina, come domina ormai in modo irruento. La bellezza scompare anche dal possibile, se non la salvi tu.