Non ricordo il giorno in cui venni a conoscenza della figura di Franco Freda, probabilmente fu tramite la ‘Disintegrazione del sistema’ o attraverso qualche video sul processo di Catanzaro. Una mente affascinante, lucida, miticizzata da qualche racconto specifico ma comunque culturalmente interessante. Di Ventura, invece, ben poche notizie: sappiamo fosse amico dell’Editore, ricordo la deposizione proprio al processo di Catanzaro, ma null’altro.
Fortuna volle che vennero in soccorso a noi ricercatori della verità le sorelle Valerio, Anna e Silvia, rispettivamente moglie e cognata dell’Editore. Due scrittrici già note per altri testi che attraverso un italiano forbito e mai noioso ripercorrono, in maniera romanzata, la passione di Freda e Ventura, la lotta contro quel sistema che si rivelò forte nelle sanzioni ma debole nelle idee. Fu così che contattai la più piccola delle Valerio, Silvia, facendomi raccontare del romanzo dal titolo ammiccante, “Non ci sono innocenti”, edito proprio da Edizioni di Ar.
Perché avete deciso di scrivere questo libro? Una risposta al Segreto di piazza Fontana di Cucchiarelli?
Il libro di Cucchiarelli, dice. Una noia mortale. Una nausea mortale. Circonvoluzioni di parole e congetture così artefatte e lontane dalla realtà che non se ne riesce a leggere più di una ventina di pagine. Ma Cucchiarelli non è l’unico ad aver trasformato la storia in fantascienza. C’è una lunga tradizione, che comincia con gli instant-book dei compagni degli anni ’70. Ecco: con il nostro libro, volutamente duro, secco, antiretorico, fatto di cose palpabili più che di strambi ragionamenti, abbiamo cercato di riportare i lettori alla realtà – al misterioso romanzo della realtà.
La forma romanzata sembra antitetica rispetto alla forma mentis dell’Editore Franco Freda. Qual è il motivo di tale scelta?
La natura del reale, appunto: dominata dai capricci del caso, tutta chiaroscuri, umori, atmosfere, fatalità quasi incredibili, che solo la pazienza del romanziere può raccontare – e così spiegare – fino in fondo. Certo, il protagonista di “Non ci sono innocenti” non ha troppa simpatia per i romanzi e la sua tenacia politica è così netta da stare ben al di sopra di un fiume di parole letterarie. È tipo da “idee senza parole”, lui: ma quanti sanno ancora respirarle?
“A Giovanni, amico indimenticabile”. Lei, notevolmente più giovane dell’Editore, che storie ha sentito sul suo conto? Saprà che non esistono molte descrizioni del Ventura e delle sue gesta…
Abbiamo provato per la prima volta a raccontare questo personaggio, profondo fino all’oscurità. Profondo: non “equivoco”, come vuole una certa vulgata presuntuosa e nevrotica. Un Aiace orfano del suo Sofocle.
“Il Vecchio”, “L’Autocrate”, perché la scelta di taluni appellativi?
Erano quelli che venivano usati nella realtà dai membri del Gruppo di Ar. A volte con una lieve inflessione ironica-autoironica…
Sono rimasto affascinato dalla lettura del romanzo. Notevole ars scribendi romanzata al punto giusto. Lei, che appartiene a un’altra generazione rispetto a quella dell’Editore, che formazione culturale ha? È un’amante di determinati settori culturali – per brevità, “di destra” – o preferisce una formazione ad ampio raggio?
Cerco di non farmi mancare scorribande culturali “in partibus infidelium”, che si tratti di musica, di arte o di letteratura. A volte qualcosa o qualcuno di buono si trova. E ho l’impressione che siano tutti, in fondo, destroidi inconsapevoli.
Il libro pullula di descrizioni reali e realistiche. Sul finale, mi ha colpito un passaggio: “Nord, Sud. L’indecenza univa l’Italia”. Poche parole che sembrano descrivere l’attuale decadenza politica e filosofica, non crede?
Sì. Scrivendo le ultime pagine del romanzo abbiamo spremuto tutto il dolore che ci portavamo dentro per un’Italia marcia e una politica impossibile. Che erano le stesse del ’68-’69. Che, come allora, solo un miracolo potrebbe salvare.
Altro passaggio: “Prima ci si vendica, poi si fa la pace”. Un aforisma. Esistono, all’interno del libro, dialoghi potenzialmente veritieri e partoriti dal genio dei protagonisti?
A tratti abbiamo saccheggiato un esaltante libretto di Freda, che contiene scritti maturati proprio nella temperie del ’68: “In alto le forche!” Gli altri dialoghi li abbiamo costruiti, con grande fatica, cercando di riprodurre fedelmente il timbro grave della sua voce. A libro finito, ci rimbombava nelle orecchie.
Un romanzo simile è una vera novità nel panorama letterario nostrano. Nell’era in cui il romanticismo assume le parvenze di letteratura adolescenziale, ritiene che opere come la Vostra possano, altresì, ricondurre il Romanticismo a un significato ottocentesco ben più ricercato sia filosoficamente che culturalmente?
Pur duro, pur secco, è vero che questo libro è un fiotto di passione. Passione-patimento, spesso, amour-passion. Ma si può uscire dal Romanticismo restando umani?… Se poi il nostro sforzo di precisione e la nostra passione della passione potrà elevare il tono letterario attuale, non so dirle. Sarebbe presuntuoso perfino sperarlo. Ma chissà. Il caso. Il caso potrebbe giocare anche con noi.
Curiosità personale. Quale il responso dell’Editore alla lettura – se l’ha effettuata – del libro?
Ah, il lettore più antipatico che si potesse incontrare. Questo testo lo ha subito e concesso solo per cavalleria. Ma ha ammesso che, se non trattasse di lui, non sarebbe poi male…