Questionario proustiano sulla scuola #10 – L’artista CURZIO VIVARELLI. L’educazione ha bisogno di ali – pubblicato su Barbadillo.it

 

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Barba lunga da russo ortodosso, occhi gentili, Curzio Vivarelli è uno dei pochi artisti veri rimasti, nella notte nera dei Cattelan, delle boutade spacciate per colpi di genio, del marketing che ha esiliato le Muse. Eclettico ma mai per posa, ha un vero amore per le ali, naturali o meccaniche. Con un manuale tecnico vendutissimo in Germania, è il massimo esperto europeo di aeroplanini di carta. Scolpisce teatri pagani di carta senza paura delle increspature dell’umidità, assembla sculture di gabbiani in volo, accosta nei suoi acquerelli colori luminosissimi di gusto roerichiano, sa riformulare la lingua (esoterica per eccellenza) dell’astrattismo, insegue l’incanto di una linea “summae tenuitatis”. Pubblica con l’editore di poesia Campanotto saggi sui futuristi e gli avanguardisti russi. Cura da quasi un decennio la grafica delle copertine dei libri delle Edizioni di Ar e l’opera originale che le correda e sempre per Ar ha pubblicato un volumetto sull’arte astratta di Evola, oltre ad avere il merito di aver riproposto al pubblico italiano le pitture di Nikolaj Roerich. In giugno, a Mosca, ha esposto un ciclo di chine russo-veneziane presso la Fondazione Solgenitsin, e, dato il successo, la mostra è stata replicata un mese fa a Dresda. Ma ancora di più delle opere esposte in giro per il mondo, della mostra permanente presso la galleria d’arte “La torre” della sua città, Verona, lo inorgogliscono le riproduzioni delle copertine più belle che ha disegnato per Ar, appese nell’aula di una scuola elementare storica di Padova. Gli occhi dei bambini che si perdono nei suoi gialli, nei suoi azzurri: la critica migliore.

 

La scuola di oggi riesce a dare agli studenti gli strumenti per affrontare le necessità di questo tempo? È ora di riformare radicalmente i suoi programmi? Partendo da cosa?

Dubito che la scuola odierna possa dare tali strumenti. Sola eccezione risulta, dalla mia esperienza, e diretta e indiretta, quella delle scuole superiori tecniche, quali gli istituti per geometri o ragionieri, e quelli di periti meccanici informatici o elettrotecnici ed elettronici.
In queste ultime, infatti, l’insegnamento delle materie specifiche di formazione è affidato ad ingegneri, che spesso hanno alle spalle un’esperienza nell’industria o conducono per loro conto degli studi professionali di progettazione.
Sempre dalla mia esperienza, posso dire che discreto è il livello di preparazione conferito dalle scuole superiori linguistiche, quelle che a suo tempo si chiamarono licei linguistici. Qui effettivamente è raro che un allievo licenziato alla maturità non scriva o non parli con un minimo di competenza in francese o tedesco o altro.
Da quanto detto risulta dunque che la parte per così dire patetica sia quella recitata dalle scuole che paradossalmente la riforma Gentile volle porre a pilastro basilare della formazione d’una futura classe dirigente.
Il liceo scientifico o classico sarebbero ancora ottimi sulla carta dei loro statuti e nei piani dei loro insegnamenti. Quello che credo sia venuto clamorosamente a fallire è la classe professionale preposta all’insegnamento. Un ingegnere dell’istituto tecnico o un agronomo che insegna all’istituto agrario non possono troppo e troppo a lungo nascondersi dietro le parole e la retorica nell’insegnare ai loro allievi. Essi devono dare effettivamente delle nozioni e queste devono avere un riscontro preciso sotto forma di esercizi svolti e testabili sui libri o addirittura nella pratica dell’esperimento.
Per un docente di storia o di letteratura e infine, purtroppo, anche di latino o matematica o fisica è più facile, al contrario, “menare il can per l’aja” e preparare al minimo gli allievi, usando durante le lezioni la dolce medicina d’una intermessa e protratta discussione filosofica e profonda, condita poi dalla sapiente demagogia nella distribuzione dei voti…
E in ciò incoraggiato – nei fatti, seppure non a parole -, spesso, dalle presidenze occupate a sbrigare solo pastoje di burocrazia e disciplinari e sempre dai collegi dei genitori, i quali, so per esperienza diretta, si tacitano subito allorquando si fa balenare loro la promozione facile da condensarsi nel noto adagio del “todos caballeros”: massima che mi ripeteva a scuola una simpatica e anziana professoressa napoletana di lettere.

 

Che cosa cambierebbe, che cosa toglierebbe, che cosa introdurrebbe?

Rivolto la domanda nella sua complementare, che è però assoluta: come selezionerebbe una nuova classe docente? È dalla risposta a tale domanda che si può poi porre altre domande e rivolgersi ad altri compiti.

 

Come potrebbe una buona scuola favorire l‘inserimento nel mondo del lavoro?

Ponendo gli allievi a contatto con docenti effettivamente inseritisi, per le loro competenze, nel mondo del lavoro. Fino a che gli allievi devono incontrare per aule e corridoi dei poveri professori che si trascinano in forza d’un concorso senza più riscontri successivi, nulla vi è da sperare…

 

È ancora sensato puntare a una pedagogia di tipo etico-astratto, idealistico, invece che funzionale? Non è un prendersi in giro fingendo vivo un universo di valori assoluti che la storia recente ha ucciso? La formula “serve per aprire la mente” non ha il sapore di un’illusione?

Il tipo etico-astratto di pedagogia, che pure ha avuto dei begli esempi nel passato, quando decade origina appunto i rètori che si trascinano per le aule ed i corridoi di cui sopra. Se avessimo la ventura di incontrare uno Schelling o un Fichte nelle aule, una piccolina eccezione la si potrebbe fare. Ma leggo ahimè nella biografia di Schopenhauer della sua delusione all’ascolto delle lezioni del grande Fichte e quindi resto perplesso…
E non racconta poi Nietzsche, nel suo “Schopenhauer als Erzieher”, del clima libero e scanzonato respirato dal grande di Danzica allorquando fu spedito dal provvido padre alla scuola commerciale di Amburgo e poi all’estero, onde apprendere dal vivo le lingue? Non è stato pure questo un aprirsi della mente?
E non sappiamo giusto dalle Edizioni di Ar, leggendo Giuseppe De Lorenzo, che il grande Karl Eugen Neumann prima di alzare le vele magnifiche del suo studio di sanscrito e pali, onde approdare alla traduzione della parola di Gautamo Siddharta, aveva studiato, e con profitto pure lui, alle scuole commerciali? Era dunque necessaria a tale opera una pedagogia d’accademia?
E non ricordo or ora la fierezza di Céline, quando si burla degli allievi dei collegi e licei parigini, avendo lui assolto l’istruzione primaria nella scuoletta comunale a contatto con l’argot vivacissimo dei suoi compagni di estrazione modesta tanto quanto la sua?
Tutto è illusione, certo, e con ciò non solo la pedagogia ma pure ogni alata disciplina o pratica. Però almeno all’istituto tecnico si impara qualcosa di effettivo sui motori elettrici a corrente continua o sul campo magnetico rotante scoperto dal Ferraris. E all’agrario s’impara a far un estimo corretto d’un fondo agricolo con tezza annessa…

 

L’alfabetizzazione di massa è un problema ormai superato. Varrebbe la pena lasciare, fin dalle elementari, più libertà di scelta agli studenti e alle famiglie, sia per quanto riguarda la possibilità di specializzarsi in certi ambiti piuttosto che in altri, sia per quanto riguarda gli orari in cui frequentare la scuola? Mantenere magari un minimo di ore obbligatorie e renderne facoltative e personalizzabili altrettante?

Domanda che sinceramente vedo ancora un poco imprecisa, quindi, per dirla con Prezzolini, un po’ retorica.
Primo, è da selezionare come si deve una classe docente.
Secondo, deve esser lasciata agli allievi, entro un vario spettro di possibilità, la facoltà di scegliersi il ramo disciplinare entro cui inoltrarsi – e insegnante relativo. E per una stessa materia deve esser lasciata possibilità agli allievi di scegliere il docente che essi preferiscono. Alcune classi saranno affollate, con un docente brillante, altre avranno un docente timido e introverso, ma forse altrettanto brillante nell’indagine e nello studio, con pochi, forse pochissimi allievi.
Mi viene il ricordo della docenza in filosofia in quel di Berlino, negli anni avanti al 1830, di Schopenhauer. Egli pose per polemica le ore del suo insegnamento giusto contemporanee alle ore del grande Hegel. Con il risultato di trovar la sua aula con pochissimi studenti, che gradatamente scesero in numero fino a lasciarlo del tutto solo. Eppure entrambi sono i geni, fratelli e nemici come solo dei fratelli possono esserlo, della filosofia tedesca…
È un rischio da correre, ma porta in effetti a dei risultati, su questo non vi è dubbio. Io, comunque, né avrei seguito il primo né sarei stato troppo con il secondo. Casomai avrei seguito i corsi di Humboldt sulle scienze naturali e quelli di Helmoltz, fisico, medico e filosofo. solo che questi non erano tra loro contemporanei.
Divago con una fantasia che l’intervistatrice e il lettore si accorgeranno essere quella d’un forsennato autodidatta, come Papini e Prezzolini…

 

Non è necessario, sempre, dalle elementari alle superiori, lasciare ai ragazzi del tempo per coltivare altre qualità oltre all’efficienza della mente?

Certo. Io all’istituto tecnico studiacchiavo per avere la promozione e poi facevo sport agonistico con qualche grazioso risultato. E quasi ogni pomeriggio alzavo le vele in gite ed escursioni per le campagne con alcuni compagni scelti ed altrettanto poco primi della classe quanto me.

È vero, almeno qualche volta, che “lo stupido istruito ha solo un campo più vasto per praticare la sua stupidità”?

Ahi! Quell'”almeno qualche volta” agisce in guisa di ammortizzatore – idraulico o a frizione non so!
La massima di Nicolás Gómez Dávila vale purtroppo sempre, e se ne riscontra il valore pure nelle competenze più strettamente tecniche.
Non sono certi progetti d’architettura del tutto irrazionali? Non capita che delle automobili si rivelino dei completi fallimenti tecnici? Perché in certe città la rete dei tram è stata smantellata e non piuttosto resa attuale e semplificata, per sostituirla con i fumosi automezzi a gasolio, salvo poi pentirsene?
Anche in queste competenze, sia pure in modo più lieve, perché malgrado tutto un minimo di riscontro alle funzioni richieste alle macchine doveva trovar luogo, vi si è rivelato l’affiorare d’una stupidità ammantellata dal titolo d’ingegneria…